Ogni anno i cani uccidono 25.000 persone, le vittime di squali invece si contano sulle dita delle mani, però, curiosamente,  a nessuna persona attaccato da un cane è mai venuto in mente di convocare una conferenza stampa. E men che meno è mai venuto in mente ai giornalisti di andare ad ascoltarlo. Oggi per lo squalo di Marsa Alam è successo.

È una vicenda emblematica dove si inseriscono diversi fattori: l’umana vanità del protagonista, eroe per un giorno, che dice “ho combattuto lo squalo a mani nude”, ma soprattutto la morbosità di tutti noi che lo stiamo ad ascoltare.

E perché ascoltiamo questo sopravvissuto verso il quale, peraltro, provo umana solidarietà e anche simpatia?

Perché l’episodio ha risvegliato nella parte più primitiva del nostro cervello il terrore di finire vivi nella pancia di un altro essere vivente. 
Non siamo più abituati a essere carne da mangiare. Eppure lo siamo stati fin dall’inizio della nostra comparsa sulla terra e lo siamo stati fino a poche generazioni fa.  Oggi tutti i grandi predatori terrestri vivono nelle riserve, nei parchi naturali, nei circhi o negli zoo. Solo “lui”, lo squalo, è ancora in libertà e per giunta vive in mare, un ambiente che conosciamo poco.

E davanti a uno squalo noi possiamo tornare a essere prede, carne da mangiare, paura che, per il mio lavoro, ho vissuto in mare diverse volte. È una brutta sensazione e l’effetto brivido arriva anche se leggiamo o guardiamo in televisione che è successo a qualcun altro.

Poi c’è anche  il bisogno che abbiamo di storie e di mostri. Se le raccontavano gli uomini primitivi davanti a un fuoco e ce le raccontiamo ancora in tv o sui social. Funzionano e servono a rassicurarci sulla nostra normalità e sulla nostra fortuna, per questo la cronaca nera attira.

Dopo tanti giorni io non ho ancora capito di che specie fosse questo squalo killer. Eppure basterebbe la foto di un solo morso sulla pelle per capirlo. Il mako ha denti appuntiti come chiodi, perfetti per uncinare i pesci che ingoia vivi, lo squalo tigre li ha triangolari adatti per tranciare pelle, muscoli e ossa.  I denti degli squali sono come impronte digitali.  Vedere le dita con le bende non aiuta a capire e se non capisci è difficile prendere precauzioni per evitare incidenti futuri.

Ho sentito che la difesa sarebbe stata mettere un dito nell’occhio delle squalo, ma lo squalo ha una protezione formidabile davanti agli occhi, si chiama membrana nittitante, è un po’ come uno scudo che scherma e protegge l’occhio davanti a un pericolo. È il muso, ricco di organi di senso delicati e sensibili, il vero punto debole dello squalo. Un pugno sul muso funziona più di un dito nell’occhio. Spero non vi serva mai, ma tenete il consiglio da conto.

Ho grande solidarietà per la vittima e la sua famiglia che vive questa tragedia.  È stato un incidente davvero sfortunato, ma non dimentichiamo che noi gli squali li abbiamo quasi sterminati in tutti i mari del mondo con grave danno per il mare.  Un mare senza squali è un mare povero di pesci perché se c’è un pesce malato lo squalo lo mangia (è più facile da catturare), e l’epidemia non si diffonde a tutti gli altri pesci. Gli squali sono i registi del mare e i custodi della sua salute.

Ah, dimenticavo, se qualcuno reputasse sgradevole l’accostamento con la pericolosità dei cani, concordo anche io, d’altronde ho un cane adorabile, ma qui parliamo di numeri. 
E la comparabilità  statistica cani/squali c’è perché ogni giorno entrano in mare milioni persone. E lo squalo può essere vicino a noi, forse nuota davanti all’ombrellone anche se non lo sappiamo, ma ha di meglio da mangiare.

Alberto Luca Recchi (Alberto Luca Recchi)

* Alberto Luca Recchi è un esploratore del Mare. L’unico italiano ad avere fatto un libro fotografico per il National Geographic. Sue sono le prime spedizioni alla ricerca di squali e balene nel Mediterraneo. Ha scritto molti libri, di cui 5 con Piero Angela. Autore del podcast “Un mare di Storie di Alberto Luca Recchi”

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