In quella che per il settore auto ricorderemo come la settimana più drammatica del 2024 – Stellantis perde il 14% in borsa, Volkswagen comunica la possibile chiusura di due stabilimenti in Germania, movimenti negativi per Renault che alimentano le voci sulla fusione con Stellantis (e BMW) – in Italia si rende noto l’intervento di Carlos Tavares alla Camera, previsto per l’11 ottobre, e il periodico rapporto Fim-Cisl ci aiuta a capire la reale situazione del settore in Italia, considerato anche che il gruppo Stellantis è l’unico grande costruttore presente nel Paese. Ne discutiamo con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova.

Sabella, partiamo proprio da Stellantis. Il rapporto Fim-Cisl ci dice che nei primi 9 mesi del 2024, la produzione rispetto al 2023 è calata del 31,7%. Cosa sta succedendo?

Il dato in questione è correlato alla flessione del titolo a Piazza Affari di lunedì scorso. Il movimento negativo in borsa segue alle decisioni di Tavares di accelerare il piano di normalizzazione dei livelli di stock negli Stati Uniti con l’obiettivo di max 330.000 unità in giacenza presso la rete entro la fine del 2024. Ciò significa che le consegne saranno ridotte di oltre 200.000 veicoli nel secondo semestre e non più di 100.000 come stimato precedentemente.

Come si spiega questo problema relativo agli stock in giacenza presso la rete distributiva?

Molti costruttori nel 2023 hanno puntato sul consolidamento degli stock, anche per far fronte a tempi di consegna che si stavano allungando e che, quindi, diventavano fattore competitivo. In buona sostanza, prima si è prodotto molto, ora si rallenta. Detto questo, l’intero settore ha qualche problema. Ma se vogliamo capire bene la situazione bisogna uscire dalla guerra un po’ provinciale che viene condotta contro il gruppo transalpino – oggi capitanata da Carlo Calenda – e inquadrare i problemi di Stellantis all’interno di un quadro europeo in grande difficoltà, anche per scelte sbagliate.

Nello specifico, quali impatti hanno queste scelte di Tavares sulla produzione italiana?

Il report Fim-Cisl ci aiuta a capire questo quadro. A Torino il record negativo, -68,4% con 22.240 auto prodotte: 20.210 Cinquecento elettriche; 2.030 Maserati (furono 41 mila nel 2017). Nei primi 6 mesi del 2024 si sono registrate 45 giornate di stop produttivo; in luglio sono stati 5 i giorni lavorati, fermo totale in agosto, 9 in settembre. E Stellantis ha appena prolungato di un altro mese lo stop alla produzione a Mirafiori della Cinquecento elettrica. A Modena la produzione Maserati si è fermata a 220 vetture in 9 mesi (-75,8%): nel 2023 erano state 910. Meno 61,9% a Melfi con 88 mila auto in meno (da 142.320) tra 500X, Jeep Compass e Renegade. A Cassino (-47,6%) le auto prodotte nel terzo trimestre sono state 19.710, la peggiore performance nella storia dello stabilimento che nel 2019 aveva superato le 200 mila unità. Pomigliano registra ancora il numero maggiore di auto prodotte con il 59% del totale (141.290). La flessione è del 5,5%, la Panda è l’unica nota positiva della situazione: 110.900 unità, +17%. Tutto questo si traduce in continui ammortizzatori sociali (in esaurimento) e, secondo Fim-Cisl, in 25 mila lavoratori a rischio di posto di lavoro.

Venendo al quadro europeo a cui lei faceva cenno in precedenza, come stanno gli altri grandi costruttori e qual è la situazione del settore?

Come abbiamo visto anche in altre occasioni, vi sono criticità che si sovrappongono. Iniziamo col dire che sono ormai 15 anni che il mercato dell’auto in Europa resta contratto. Non ha più riacquistato il dinamismo che ha avuto nel periodo precedente la crisi economica del 2008, anno in cui le vendite si attestavano attorno ai 16 milioni di veicoli. Fino al 2014 il mercato ha avuto difficoltà a riprendersi e soltanto nel periodo 2015-2017 è tornato sui livelli pre-crisi (oltre i 15 milioni di veicoli venduti nel 2017), valori che si sono mantenuti nel periodo pre-pandemico. Ci ha poi pensato il covid-19 a rallentare di molto le vendite – nel 2023 sono meno di 13 milioni – e ad accelerare la transizione della mobilità. Sono questi, infatti, gli anni in cui si spinge per lo stop alla produzione di veicoli con motore endotermico, al momento prevista per il 2035.

Considerata questa situazione già difficile di suo, perché le Istituzioni europee hanno spinto così tanto per la transizione della mobilità?

Lo hanno fatto di concerto con i grandi costruttori se non per la loro pressione. Al quadro descritto, aggiungiamo un elemento: mentre nel 2008, secondo ACEA (Associazione dei Costruttori Europei di Automobili), la durata media dei veicoli in Europa era di circa 8,4 anni, nel 2020 la durata media ha raggiunto i 12,3 anni e oggi è ancora attestata su quei livelli. Ciò significa che in Europa, da 15 anni, si fanno macchine con una qualità superiore ma che, naturalmente, il rinnovo del parco circolante è più lento. Ecco perché i grandi costruttori hanno pensato che, puntando sul motore elettrico, i consumatori fossero indotti – anche dentro i nuovi quadri regolatori – a cambiare auto. E che questo potesse essere fattore di ripresa per l’industria europea. A ciò si aggiunge il fatto che il grande mercato cinese da anni sta puntando sull’auto elettrica: anche per questo, i costruttori europei hanno pensato di investire sull’elettrico, per competere con i costruttori cinesi sia in Europa sia in Cina. Peccato che la tecnologia dell’elettrico sia stata inventata dai cinesi. E che, quindi, loro sono giocoforza più avanti e più competitivi. Per quanto la trasformazione della mobilità coinvolga tutti i costruttori sparsi nel mondo – in Europa come negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone – pare evidente ormai che a Bruxelles si siano sbagliate stime e previsioni: il quadro attuale vigente oggi favorisce l’industria cinese. Tutto questo è semplicemente incredibile.

Come è stato possibile arrivare a questo punto?

Intanto per la convinzione della grande industria europea e americana che la Cina fosse la grande fabbrica del mondo. Ormai abbiamo capito l’errore ma tornare indietro oggi è difficile, in particolare per l’Europa ancora piuttosto interconnessa alla grande piattaforma asiatica. Oggi l’industria cinese vale un terzo della produzione mondiale e l’auto è soltanto il suo ultimo grande prodotto. Nel 2008 in Europa si produceva il 32% delle vetture prodotte nel mondo, in Cina soltanto il 4%. Oggi i rapporti di forza si sono ribaltati: in Europa si producono il 17% delle vetture prodotte nel mondo e in Cina il 32%. La Cina, come sappiamo, è cresciuta molto e la sua integrazione con la UE ha determinato queste scelte chiaramente infelici. Va anche detto, per onestà intellettuale, che tali valutazioni sia delle Istituzioni europee che del grande gotha dell’auto – Volkswagen, Renault, Stellantis, BMW, etc. – sono maturate in un periodo in cui il rapporto UE-Cina era diverso da quello attuale. L’integrazione economica e industriale era maggiore, mentre oggi si cercano vie d’uscita per ridurre le dipendenze. In questo senso, gli americani procedono senza indugio: giorno dopo giorno, Washington sta riducendo le sue relazioni con Pechino.

Come vive questa situazione la grande industria europea?

L’Europa, in particolare la Germania, teme molto il calo degli scambi con la Cina. Inoltre, i grandi costruttori cinesi stanno espandendo la loro capacità produttiva nel perimetro del Vecchio continente – evitando in questo modo i dazi doganali – che resta sempre molto dipendente da Pechino per quanto riguarda le fondamentali importazioni di materie prime critiche e terre rare. Per il momento, nonostante l’ipotesi di fusione di cui si parla (Stellantis, Renault, BMW) e il possibile progetto comune “simil airbus” in chiave anticinese (annunciato dal presidente ACEA Luca De Meo nella sua lettera a tutti gli stakeholder), ancora non vi è nessuna risposta concreta da parte dei costruttori, solo annunci di tagli del personale e di chiusura di stabilimenti.

Quali secondo lei possono essere le vie d’uscita?

Credo che si debba anzitutto rivedere l’attuale quadro normativo, il Fit for 55 – che dal 2035 sancisce lo stop del motore endotermico – è un grande assist per l’industria cinese. Sono anche dell’idea che quello dell’auto sarà uno dei primi dossier che la nuova Commissione europea affronterà. In secondo luogo, sono convinto che ancora una volta la competizione sarà vinta sul terreno dell’innovazione tecnologica. In Europa si sono commessi molti errori ma c’è ancora una grande industria che, per quanto riguarda la mobilità, non è mai stata seconda a nessuno.

Perché, in apertura, parlava di guerra un po’ provinciale condotta in Italia contro Stellantis?

Per quanto sia una storia che parte da lontano, dai problemi che riguardavano la Fiat e che oggi riguardano in particolare il rapporto tra John Elkann e l’Italia, il tema vero è che in Italia non siamo capaci di affrontare queste crisi in modo sistemico, come per esempio avviene in Germania. Oggi, per affrontare i problemi di Volkswagen, a Berlino sono tutti seduti intorno a un tavolo a cercare soluzioni. E sono pronto a scommettere che le troveranno. Nel nostro Paese, invece, siamo bravissimi ad alzare grandi polveroni che ci impediscono di analizzare i problemi in profondità e che, in mancanza di soluzioni, creano fratture. Non credo sia questa la strada: dobbiamo rafforzare, a partire da Stellantis, la nostra capacità produttiva, anche con un secondo costruttore.

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