Carlos Saura, morto il regista spagnolo che osò sfidare la censura sotto Franco- Corriere.it

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di Maurizio Porro

Tra i suoi film «La caccia», «Frappé alla menta», «Elisa, vita mia» e «Flamenco». Durante il regime franchista lottò contro la censura mentre raccontava i mali della Spagna

È morto venerdì 10 febbraio a 91 anni per insufficienza respiratoria, a Madrid, il grande regista spagnolo Carlos Saura, che proprio domani avrebbe dovuto ritirare a Siviglia il Goya d’onore alla carriera, dopo averne vinti altri per i suoi film, come a Cannes e Berlino, e dopo tre candidature all’Oscar. Una carriera lunga, sempre in equilibrio delicato tra il reale e il fantastico, il pugno e la carezza, il silenzio e la musica, che aveva saputo toccare molti tasti, la cultura del suo Paese, la dittatura franchista ed ha molto lottato con la censura ma era ammirato da Kubrick.

Ha lavorato fino all’ultimo, con un «Io, don Giovanni» nel 2009, «Flamenco flamenco» nel 2010 e un documentario su Renzo Piano del 2016. «Sono stato fortunato nella vita, avendo avuto la possibilità di fare ciò che mi interessa di più, cinema, teatro, opera e pittura». L’ultimo documentario era sulla evoluzione dell’arte murale, dalle grotte ai graffiti. Nato da una famiglia di artisti a Huesca, Spagna, nel ’32, trasferito a Madrid dopo la guerra civile, sposa per prima la passione per la fotografia da cui accede alla scuola di cinema.

Il primo lungometraggio del ’59 è «I monelli», che, come «I figli della violenza» di Buñuel, è un ritratto dei ragazzi sbandati dei sobborghi di Madrid che sognano di essere toreri, sposando così le istanze del realismo con la camera a mano della nouvelle vague. Con «La caccia» del ’65 vince l’Orso d’argento a Berlino, parlando sottotraccia della violenza a vari strati del suo Paese, nell’ombra lunga dell’ingombrante fantasma della guerra civile.

«Frappè alla menta» del 67 è il titolo più immaginifico, pieno di ossessioni religiose e sessuali, fantasy alla spagnola: critico del reale ed esploratore dell’intimo, soprattutto femminile, sapeva alternare i due tasti, con un occhio di riguardo verso le metamorfosi della borghesia. Nella «Tana» del 69 lavora con Geraldine Chaplin che diventerà la sua compagna e nel ’74 la madre di uno dei sette figli del regista, oltre che sua attrice di riferimento, è un’anatomia del rapporto coniugale scritto con Azcona.

Inevitabile lo scontro con la censura («Il giardino delle delizie» del ’69), fino ad «Anna e i lupi» del 72, ancora un film sui poteri forti che hanno dominato il suo Paese dal dopoguerra a oggi. «La cugina Angelica» del 74 fa dire a Buñuel che avrebbe dato la vita per girare un film simile. Ma il suo successo fu «Cria cuervos» (Premio della giuria a Cannes), sul mondo dell’infanzia, da cui passa all’indagine della figura della donna (l’intimista «Elisa, vita mia») mentre «Gli occhi bendati» affronta il tema della tortura.

Con «Mamà compie 100 anni» torna alla tragicommedia della straniera Anna che torna in Spagna dopo Franco e con «In fretta in fretta» sulla delinquenza giovanile vince l’Orso d’oro a Berlino. Ma è con «Bodas de sangre – Nozze di sangue», da García Lorca, inizia una lunga collaborazione artistica col ballerino coreografo Antonio Gadès con cui condivide l’esaltazione passionale in «Carmen story», da Bizet, «L’amore stregone» in cui il flamenco diventa la radice d’una cultura, la sua libera espressione, il suo punto di arrivo e partenza, come se con la danza si potesse raccontare anche la storia.

L’allegoria, l’ossessione, la musica sono il triangolo della sua poetica fortemente buñueliana, tanto che, dopo un periodo stanco, torna con «Flamenco» nel 95 e «Tango» del 98, oltre al bio movie su «Goya» (99), ricerca sulla luce e il movimento, mentre nel 92 è autore del documentario ufficiale del Giochi olimpici di Barcellona quasi a significare una esaltazione del corpo e tutto quello che riesce ad esprimere.

10 febbraio 2023 (modifica il 10 febbraio 2023 | 21:07)

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