La Cassazione si è espressa sul protocollo Italia-Albania ponendo dei rilievi di costituzionalità. Lo ha fatto con una corposa relazione che, a differenza di quella sul decreto sicurezza, è stata redatta dal servizio civile, non dal penale. È datata 18 giugno, ma se ne conoscono solo ora i dettagli.
Nella relazione si evidenziamo numerose criticità dell’accordo spiegando anche che “la dottrina ha espresso numerosi dubbi di compatibilità con la Costituzione e con il Diritto internazionale, soffermandosi poi specificamente sul rapporto tra il Protocollo e il diritto dell’Unione“. Nella relazione redatta dall’ufficio del massimario e del ruolo – di cui scrive oggi il Manifesto che ha potuto visionarne il testo – la Suprema Corte analizza il protocollo evidenziandone le criticità non solo con la Costituzione, ma anche con il diritto internazionale e quello dell’Unione Europea.
Le 48 pagine tracciano una dettagliata anatomia giuridica di tutte le questioni che ruotano intorno ai centri di Shengjin e Gjader. Il punto di partenza è la legge di conversione del decreto che a fine marzo ha esteso l’uso delle strutture, inizialmente riservate ai richiedenti asilo mai entrati in Italia, ai migranti “irregolari” già presenti sul territorio nazionale. Ma lo studio affronta anche i nodi della stessa legge di ratifica del protocollo.
Possibili violazioni del diritto alla salute, alla difesa, del diritto di asilo e della libertà personale
Entrando nel merito delle possibili violazioni dei diritti costituzionali, si va da quello alla salute a quello di difesa. L’intesa, per esempio, – scrive la Suprema Corte – omette di “individuare con precisione la categoria di persone cui l’accordo si riferisce e limitandosi ad individuarli come ‘migranti’…ingenera una complessiva disparità di trattamento tra gli stranieri da condurre in Italia e i ‘migranti’ da trasferire in Albania”.
Secondo la Cassazione, poi, l’accordo sarebbe d’ostacolo al diritto di asilo mancando una “disciplina analitica degli aspetti procedurali”. Indicazioni che sarebbero necessarie – secondo i giudici – per neutralizzare “il dislivello giuridico derivante dalla extraterritorialità, assicurando ai migranti condotti nei siti albanesi eguali garanzie rispetto ai migranti in territorio italiano”.
È stato inoltre osservato che, secondo quanto indicato dal Protocollo, “il trattenimento non è più previsto come l’extrema ratio, come previsto dalla disciplina europea” ma costituisce “l’unica alternativa indicata dal legislatore, in violazione delle garanzie a tutela della libertà personale“.
Un’ulteriore criticità “è stata ravvisata nella materiale impossibilità, in caso di detenzione all’estero, di rimettere in libertà l’individuo, una volta che siano cessatigli effetti del titolo del trattenimento. In base al protocollo, infatti, lo straniero non può essere rilasciato in Albania e deve essere ricondotto in Italia, con la conseguenza che, considerati i tempi tecnici necessari per il trasferimento su una nave o per via aerea, appare oltremodo probabile che si verifichi un trattenimento dello straniero sine titulo della durata di diverse ore, se non addirittura di alcuni giorni”.
Riguardo al diritto di difesa, la Corte sottolinea “come le modalità di esercizio del diritto di difesa delle persone straniere trattenute in Albania non risultano disciplinate da norme legislative, ma affidate alla discrezionalità del ‘responsabile italiano del centro'”.
Infine, è stato osservato come il protocollo – “nello stabilire che ‘in caso di esigenze sanitarie alle quali le autorità italiane non possono far fronte… le autorità albanesi collaborano con le autorità italiane responsabili delle medesime strutture per assicurare le cure mediche indispensabili e indifferibili ai migranti ivi trattenuti’ – possa comportare un grave pregiudizio per il diritto alla salute dei ‘migranti’, protetto dall’art. 32 della Costituzione, atteso che il livello di assistenza sanitaria albanese non è comparabile con quello italiano”.