1. In che modo Ticino Vivo reinterpreta l’ambientalismo in chiave identitaria e quali sono le implicazioni politiche di questa “ecologia delle radici”?
Ticino Vivo sposa l’ambientalismo non in chiave universalista o umanitaria, bensì identitaria. L’ambiente non è visto come patrimonio comune dell’umanità, come una risorsa da difendere per il bene e il progresso sociale, ma ideologicamente come prolungamento “naturale” della comunità etnico-nazional-culturale locale. In questo quadro, la difesa della natura diventa difesa del “nostro” territorio, contrapposto alle minacce esterne rappresentate da migranti, globalizzazione o modernità. Le implicazioni politiche sono rilevanti: l’ecologia diventa strumento di esclusione e non di inclusione, usata per giustificare politiche nazionaliste di chiusura e conservazione culturale, legittimando così un’idea gerarchica della cittadinanza e della partecipazione alla vita pubblica. L’ambientalismo identitario promosso da Ticino Vivo non è un fenomeno nuovo, ma affonda le sue radici in una tradizione ideologica ben documentata nella storia del Novecento, in particolare nel nazionalsocialismo tedesco. Già negli anni Venti e Trenta, settori dell’estrema destra tedesca elaborarono una concezione dell’ambiente fondata su una visione organicista della nazio ane: il Volk (popolo) era visto come parte integrante di un paesaggio sacralizzato, espressione di un ordine naturale e spirituale immutabile. La natura, in questa visione, non era uno spazio da preservare per il bene comune, ma il luogo d’origine da difendere contro la contaminazione — biologica, culturale, etnica — portata da elementi esterni, in particolare gli “altri” (ebrei, rom, slavi, ecc.). Questa ideologia è stata descritta efficacemente come “ecofascismo” da storici come Peter Staudenmaier e Janet Biehl, che hanno mostrato come l’ambientalismo “verde” potesse convivere perfettamente con pulsioni autoritarie, razziste e totalitarie. Il regime nazista non a caso fu pioniere in alcune politiche ambientali, come le leggi sulla protezione delle foreste o degli animali, ma sempre all’interno di un’ottica eugenetica e suprematista: la purezza del sangue e quella della terra erano parte di un’unica missione civilizzatrice e selettiva. Il parallelismo con Ticino Vivo, ma anche con movimenti contemporanei di sinistra come Ultima Generazione, emerge proprio in questa sovrapposizione fra difesa del territorio e soppressione del confronto, in cui l’alterità viene vista come un elemento disgregante, quasi “inquinante”. Si tratta quindi non tanto di ecologia, ma di ecopolitica della paura, dove l’ambiente è trasformato in un confine ideologico e simbolico, e il concetto di “radicamento” si traduce in esclusione e sospetto verso chiunque non rientri nei canoni definiti dal gruppo dominante. Le implicazioni politiche sono profonde: questa ecologia delle radici non promuove un rapporto sostenibile e cooperativo con il pianeta, ma una visione essenzialista e reazionaria del legame fra uomo e terra, che può facilmente scivolare nel suprematismo culturale e nel razzismo ambientale. In questo senso, l’ambientalismo di Ticino Vivo non è solo una postura locale, ma un dispositivo ideologico per ridefinire l’appartenenza e giustificare l’esclusione, proseguendo – anche se in forma aggiornata – la traiettoria tracciata dai movimenti ecofascisti del XX secolo.

2. Quali sono i rischi democratici legati alla diffusione del concetto di “reimmigrazione”, soprattutto in contesti dove la cittadinanza è formalmente garantita?
Il concetto di “reimmigrazione”, così come formulato da movimenti identitari come Ticino Vivo, introduce un pericoloso scivolamento semantico e politico: la cittadinanza non è più vista come uno status giuridico garantito dallo Stato, ma come una concessione subordinata alla conformità culturale, religiosa o morale. Questo trasforma la cittadinanza in un diritto revocabile, legato non alle leggi ma all’adesione a un presunto “spirito nazionale” o “valori fondanti”. Il rischio democratico è duplice: da un lato, si minano i principi dello Stato di diritto, poiché si apre la porta all’arbitrarietà e alla discriminazione strutturale; dall’altro, si legittima una visione organica e gerarchica della comunità politica, in cui esistono cittadini “più legittimi” di altri. Sebbene questa impostazione sia tipica della nuova destra radicale, forme parallele si ritrovano anche in certi ambienti della sinistra radicale, specialmente in contesti dove l’identità politica è costruita intorno a una visione rigida di appartenenza ideologica o culturale. In alcune frange del progressismo identitario, ad esempio, si affaccia l’idea che l’accesso pieno alla cittadinanza democratica debba dipendere da una “coscienza politica corretta”, escludendo chi è considerato “reazionario”, “privilegiato” o “strutturale oppressore”. Questa crisi del concetto di cittadinanza universale emerge anche in ambiti apparentemente opposti, come alcuni settori della sinistra radicale transnazionale, dove si afferma una lettura rigidamente indigena e “purificata” del diritto politico. Un caso emblematico è la rappresentazione del conflitto israelo-palestinese da parte di una parte dell’attivismo globalista, in cui gli ebrei israeliani vengono narrati come “coloni invasori” e i palestinesi come i soli detentori di legittimità storica e territoriale. In questa visione, non solo viene cancellata la complessità storica del popolo ebraico e la sua relazione con la terra, ma si ripropone una logica di esclusione etnica, dove il diritto all’esistenza o alla cittadinanza è subordinato alla presunta “autenticità indigena”. Il linguaggio usato – “decolonizzazione”, “espulsione dei coloni”, “purezza della terra” – ricalca il tema della “reimmigrazione” e, sebbene in senso opposto, lo stesso impianto discorsivo di movimenti come Ticino Vivo, che parlano di “radicamento”, “difesa del territorio”, “preservazione dei valori originari”. La struttura del discorso è la stessa: il territorio è sacralizzato, e chi non vi appartiene “per nascita” o “sangue” è considerato un corpo estraneo da rimuovere. Questa simmetria ideologica – tra il razzismo territoriale della destra radicale e l’indigenismo selettivo di certa sinistra radicale – segnala una crisi profonda della cultura democratica, che dovrebbe invece basarsi sull’inclusività dei diritti, non sulla genealogia dell’appartenenza. In entrambi i casi, si abbandona il principio di convivenza tra differenze, sostituendolo con una logica binaria e purificatrice che rende impossibile la pluralità. È proprio questo il terreno fertile per il ritorno di forme politiche illiberali, camuffate da lotte per la “giustizia” o la “sovranità”. In entrambi i casi – sebbene mossi da presupposti opposti – si assiste a una erosione dell’universalismo: a destra attraverso il nazionalismo etnoculturale, a sinistra attraverso forme di purismo ideologico e moralismo politico. In entrambi gli approcci, il cittadino non è più un individuo titolare di diritti, ma un corpo valutato per la sua conformità a un modello: etnico, culturale, o ideologico. Il concetto di “reimmigrazione”, allora, va letto non solo come una minaccia agli stranieri, ma come una crisi più ampia del concetto di cittadinanza liberale, in cui l’appartenenza democratica rischia di diventare una moneta di scambio identitaria. In tal senso, Ticino Vivo si inserisce in un quadro più ampio, dove il pluralismo viene gradualmente sostituito da comunitarismi esclusivi, e la coesistenza da appartenenze rigide, che rifiutano il conflitto come elemento costitutivo della democrazia.

3. In che misura la retorica del vittimismo strategico permette ai movimenti radicali di legittimarsi nel discorso pubblico?
La retorica del vittimismo strategico è una delle armi più efficaci dei movimenti radicali – a destra come a sinistra – per ottenere spazio e legittimità nel discorso pubblico. Essa consiste nel rappresentarsi non come promotori di ideologie divisive, ma come vittime di un sistema oppressivo, che reprime le opinioni “non allineate”, censura il dissenso e riduce al silenzio chi “osa dire la verità”. Nel caso della destra radicale, come per Ticino Vivo, questa strategia si manifesta attraverso il rifiuto esplicito dell’etichetta di estremismo e l’affermazione costante della propria “legalità” e “civiltà”. Si costruisce così un’immagine di movimento perseguitato per le sue opinioni, dipinto come baluardo del buonsenso, della tradizione e del popolo, ostacolato dalle élite politiche, mediatiche e accademiche. In questo modo, anche i contenuti più radicali – esclusione etnica, superiorità culturale, rifiuto dei diritti civili – vengono presentati come difese legittime contro una presunta “dittatura del pensiero unico”. Ma dinamiche analoghe si riscontrano anche nella sinistra radicale, soprattutto nei contesti universitari e nei movimenti “woke”. In questo caso, il vittimismo assume la forma opposta: non si è vittime del sistema per le idee “tradizionali”, ma per il proprio status di minoranza oppressa (razziale, di genere, sessuale, ecc.). Anche qui, si costruisce una narrazione moralmente blindata, in cui ogni attacco al gruppo viene reinterpretato come ulteriore prova della sua oppressione strutturale. Queste due forme di vittimismo strategico – quella difensiva della destra e quella offensiva della sinistra – si specchiano l’una nell’altra. Entrambe tendono a bloccare il dialogo democratico, a immunizzare il proprio discorso dalla critica e a rivendicare spazi di impunità ideologica. In entrambi i casi, il conflitto politico viene trasformato in un conflitto morale tra vittime e carnefici, dove chi dissente non è più un avversario legittimo, ma un nemico da zittire o delegittimare. Nel caso di Ticino Vivo, questa strategia è usata per neutralizzare l’impatto delle proprie posizioni radicali, presentandole non come ideologiche, ma come reazioni “naturali” e “difensive” a un sistema che avrebbe tradito i valori autentici della società. Così facendo, il movimento riesce a occupare spazi di discussione pubblica e a normalizzare il suo lessico, anche quando propone visioni profondamente illiberali.

4. Come si configura l’opposizione al multiculturalismo in Ticino Vivo e quali sono i parallelismi con movimenti simili in Italia e in Europa?
L’opposizione al multiculturalismo in Ticino Vivo si basa su una visione monolitica della società, dove la diversità è tollerata solo se invisibile. Si nega valore politico alla pluralità culturale, riducendola a fattore di “divisione” o “disgregazione”. Questo ricalca fedelmente la retorica dei movimenti extraparlamentari identitari in Italia e altrove, dove l’identità nazionale viene sacralizzata e ogni forma di alterità culturale è percepita come minaccia all’ordine. La diversità viene così trasformata in colpa, e la società in uno spazio chiuso dove solo ciò che è conforme ha diritto di esistere pubblicamente.

5. Quali elementi del discorso e delle pratiche di Ticino Vivo possono essere letti come parte di una più ampia strategia geopolitica russa di destabilizzazione?
I contenuti e le pratiche comunicative di Ticino Vivo si inseriscono con sorprendente coerenza nella logica della guerra culturale ibrida che la Federazione Russa porta avanti ormai da anni nei confronti dell’Europa e dell’Occidente liberale. La Russia post-sovietica, specialmente sotto la leadership di Vladimir Putin, ha abbandonato qualsiasi progetto universalista o ideologico in senso classico per abbracciare una strategia di destabilizzazione selettiva: seminare divisione, sfiducia, frammentazione all’interno delle democrazie europee attraverso il sostegno – diretto o indiretto – a movimenti identitari, sovranisti, negazionisti, no-vax, antiglobalisti o antieuropeisti, spesso tra loro incompatibili, ma tutti accomunati da un elemento anti-sistemico. In questo contesto, Ticino Vivo riproduce – consapevolmente o meno – diversi tratti tipici di questa logica sovversiva soft: Linguaggio identitario e antiglobalista, che contrappone il “popolo vero” a élite astratte e traditrici, in linea con la narrazione russa di una “Europa decadente” dominata da interessi stranieri e disancorata dalle sue radici culturali. Discredito sistematico del multiculturalismo, della libertà di stampa e delle istituzioni sovranazionali (UE, ONU, ecc.), elementi centrali della strategia russa di delegittimazione del modello liberale. Utilizzo strumentale dei diritti umani come leva polemica, denunciando una presunta “dittatura del politicamente corretto”, tema ricorrente nei media russi come RT o Sputnik, dove l’Occidente viene descritto come ipocrita e moralmente corrotto.

 

Estetiche e metodi comunicativi mutuati dalla propaganda digitale, inclusi meme, slogan a forte impatto emotivo e disintermediazione del discorso attraverso piattaforme come Telegram, TikTok o Signal, usate anche da operazioni d’influenza coordinate dal Cremlino. Questi elementi si sommano a una ambiguità di fondo sul piano della collocazione geopolitica: pur non esprimendo un’esplicita simpatia per la Russia, Ticino Vivo ricalca molte delle fratture narrative che Mosca cerca di amplificare nel contesto europeo – ad esempio la contrapposizione tra “tradizione” e “decadenza liberale”, tra “sovranità nazionale” e “imperialismo globalista”. Tutto ciò è coerente con quanto i servizi di intelligence europei e statunitensi definiscono come “attività sovversive non lineari”: interventi culturali e mediatici che non richiedono un legame diretto con Mosca, ma che operano per indebolire la fiducia nei meccanismi democratici attraverso l’amplificazione delle polarizzazioni esistenti. Movimenti come Ticino Vivo diventano così, anche inconsapevolmente, “utili idioti” del caos sistemico, funzionali a un disegno più ampio di erosione della coesione sociale e istituzionale del continente.

6. Qual è la funzione del social network TikTok per la nuova destra radicale e come viene usato da Ticino Vivo per fare proselitismo tra i giovani?
TikTok rappresenta uno strumento strategico per la diffusione veloce e semplificata di contenuti politici. La nuova destra lo utilizza per rendere “virali” messaggi complessi attraverso meme, slogan e estetiche accattivanti. Ticino Vivo, come altri movimenti affini, sfrutta questa piattaforma per intercettare un pubblico giovanile non politicamente formato, proponendo un’identità forte, immediata e rassicurante, spesso attraverso la ridicolizzazione dell’avversario e la semplificazione estrema dei problemi. Il risultato è una forma di propaganda mimetica che bypassa la riflessione e punta alla reazione emotiva.

7. In che modo il movimento adotta una strategia di “tolleranza condizionata” nei confronti delle minoranze (es. LGBTQ+), e cosa rivela ciò sul suo impianto ideologico?
Ticino Vivo, come molti movimenti identitari contemporanei, adotta una strategia discorsiva che potremmo definire di tolleranza condizionata: afferma formalmente il diritto all’esistenza delle minoranze, ma lo subordina a un principio di invisibilità e silenzio pubblico. In altre parole, “ognuno è libero di essere ciò che vuole, purché non lo faccia vedere, non lo dica, e soprattutto non chieda riconoscimento sociale o istituzionale”. Questo tipo di retorica è particolarmente evidente nella posizione del movimento rispetto alle comunità LGBTQ+: pur dichiarando di non essere “contro nessuno”, Ticino Vivo critica quella che definisce un’“enfasi mediatica” o una “sovraesposizione” del tema. Si tratta di un argomento solo apparentemente moderato, ma che in realtà si basa su un presupposto normativo e gerarchico della società: c’è una cultura dominante (eterosessuale, cristiana, “tradizionale”) che ha diritto alla visibilità pubblica, mentre le altre devono rimanere nei margini, tollerate ma non riconosciute come eguali. Questa dinamica si ritrova anche in altri contesti europei, ad esempio nel modello ungherese di “illiberal democracy” promosso da Viktor Orbán, dove i diritti civili vengono formalmente riconosciuti ma di fatto neutralizzati nella sfera pubblica attraverso leggi che vietano la “propaganda LGBTQ+” o ne limitano l’espressione culturale e scolastica. Analogamente, Ticino Vivo riproduce un’idea di libertà privata ma non pubblica, dove i diritti esistono solo finché non entrano in conflitto con la “normalità sociale” imposta come riferimento. Sul piano ideologico, questa tolleranza condizionata rivela un impianto fortemente normativo, moralizzante e verticalista: non si accetta la pluralità come fondamento della democrazia, ma solo come concessione controllata da parte della maggioranza. Le minoranze vengono accettate non come soggetti di diritti, ma come ospiti tollerati, ai quali è richiesto di non disturbare l’equilibrio sociale con richieste di visibilità, uguaglianza o partecipazione. Infine, è importante notare che questa retorica agisce come un dispositivo di neutralizzazione del dissenso: chi chiede diritti viene accusato di “ideologizzare” la società; chi rivendica uguaglianza viene accusato di essere “divisivo”; chi esce dalla norma viene delegittimato in quanto “esibizionista”. Così facendo, il movimento si propone come equilibrato e moderato, quando in realtà sta ricostruendo un ordine pubblico autoritario, dove solo ciò che è conforme ha diritto di parola.

8. Ticino Vivo è solo un fenomeno locale o rappresenta un tassello di una trasformazione ideologica più ampia in Europa?
Pur presentandosi come movimento radicato nel contesto ticinese, Ticino Vivo partecipa a pieno titolo a una trasformazione ideologica più ampia che riguarda l’intero continente europeo. Il suo linguaggio, le sue priorità e il suo impianto valoriale si inseriscono nel discorso transnazionale della nuova destra identitaria, sovranista e post-liberale. Più che un fenomeno locale, Ticino Vivo rappresenta un terminale territoriale di una rete ideologica che attraversa l’Europa, accomunata dalla battaglia culturale per la riconquista simbolica dell’identità, contro il pluralismo e le conquiste del modello democratico liberale.

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