George Lucas racconta la grande elegia americana- Corriere.it

0
34
di Filippo Mazzarella

Uno dei più grandi e inimitabili film della New Hollywood anni Settanta usciva in America l’11 agosto 1973

Estate 1962. In un’imprecisata cittadina californiana, quattro amici trascorrono la loro ultima notte da liceali. Curt Henderson (Richard Dreyfuss) dovrebbe partire il mattino dopo per il college grazie a una borsa di studio offerta dai commercianti locali, ma è assalito dai dubbi; e dopo aver incrociato una bionda misteriosa alla guida di un’auto di lusso che gli ha indirizzato un muto “I love you” si mette alla sua ricerca. Incontrerà sul suo cammino i teppisti Pharaohs del balordo Joe (Bo Hopkins) con cui condividerà una sorta di rito iniziatico ai danni della polizia e finirà a chiedere aiuto al mitico deejay della notte Lupo Solitario/Wolfman Jack (se stesso) perché trasmetta un appello radiofonico alla donna.

Ma lo attende un’amara sorpresa. Anche Steve (Ron Howard) dovrebbe andare a studiare altrove: e il suo cruccio è invece quello di convincere la storica fidanzata Laurie (Cindy Williams), sorella di Curt, che non ci sarebbe niente di male se durante la sua assenza entrambi avessero la libertà di frequentare altre persone. La ragazza però rifiuta l’idea, e per ripicca finirà col farsi dare un passaggio sulla Chevrolet dello sbruffone Bob Falfa (Harrison Ford), che appena giunto in città sta cercando in ogni dove il popolare John Milner (Paul LeMat) per sfidarlo a una corsa clandestina. Quest’ultimo, abile meccanico, è come sempre a bordo della sua 32 Ford Deuce Coupé, in apparenza una carretta, intenzionato a “rimorchiare”: e si ritrova a dover fare i conti con la petulante minorenne Carol (Mackenzie Phillips) che minaccia di denunciarlo per stupro se non le farà trascorrere una nottata “da adulta”.

L’ultimo dei quattro è il nerd squattrinato Terry (Charles Martin Smith), detto il Rospo, unico del gruppo a non possedere un’auto propria, a cui Steve ha affidato la sua lussuosa Chevro Impala fino al suo ritorno. Grazie a essa, riesce a farsi notare dalla bionda cotonata e svaporata Debbie (Candy Clark) che malgrado le mille disavventure (furto del veicolo compreso) causate dall’inadeguatezza del ragazzo finirà probabilmente con l’innamorarsene. All’alba, John e Falfa finalmente gareggeranno, sfiorando una tragedia solo rimandata: come avvertono in parte le didascalie finali che svelano il futuro (triste, “normativo” o luttuoso) dei quattro.

Compie cinquant’anni (uscì negli Usa l’11 agosto 1973; da noi solo nell’aprile dell’anno successivo) uno dei più grandi e inimitabili film della New Hollywood anni Settanta: “American Graffiti” di George Lucas, il regista che di quella cruciale stagione è stato forse il più singolare, libero, inafferrabile, svincolato; e senza dubbio quello che con il successo planetario di “Star Wars” più di ogni altro ha anche contribuito a decretarne la fine. Prodotto da Francis Ford Coppola, cosceneggiato con Willard Huyck e Gloria Katz, fotograficamente calato in una buio avvolgente e materico da Jan D’Alquen e Ron Eveslage (ma sotto la supervisione del genio Haskell Wexler) e scenografato magistralmente da Dennis Clark, attento a ricostruire i sixties con un dettaglio iperrealistico degno di Edward Hopper e all’inseguimento di una “realtà” che svela sempre anche la sua natura di “set”, “American Graffiti” (il titolo, geniale ed emblematico, individua in un decennio ancora relativamente “vicino” una sorta di “preistoria” degli Stati Uniti) è il film che meglio di ogni altro racconta la grande elegia americana e la fine dell’”età dell’innocenza”.

Lo fa con una struttura disgregata in sincopi, frammenti, accadimenti isolati e squarci probabilmente onirici (come tutto il percorso di Curt, perso nella notte a rincorrere un fantasma in un’atmosfera ai confini col sogno dove nulla sembra possedere le stesse cifre di verosimiglianza delle vicende parallele) tenuti insieme senza soluzione di continuità da una colonna sonora di classici rock’n’roll cristallizzati nel mito. Lucas rievoca gli albori del grande trauma storico, sociale e culturale americano: l’assassinio di JFK nel 1963, la controcultura del Sessantotto, l’ingresso nella guerra in Vietnam, il declino dei vecchi mezzi di comunicazione soverchiato dal potere massificante dei nuovi media (di cui il conduttore radiofonico Wolfman Jack è allo stesso tempo memoria e relitto; oltreché, simbolicamente “padre, angelo, regista, materializzazione dell’inconscio dei quattro e di un’intera nazione” [Alberto Libera]).

Ma in parallelo alla dimensione metaforica, che intride di inquietudine e amarezza ogni fotogramma, ogni dialogo, ogni sottinteso, scorre anche una commedia “leggera”, permeata della sincera nostalgia di Lucas per gli anni della sua giovinezza (un testimone che sarà poi raccolto e mutato di segno anche da Coppola una decade esatta dopo con il dittico “I ragazzi della 56° Strada/The Outsiders” e “Rusty il selavaggio/Rumble Fish”, entrambi dle 1983) e servita al meglio da un cast straordinario. Solo Candy Clark ottenne una nomination all’Oscar come non protagonista, ma l’avrebbero meritata tutti: dal trasognato Dreyfuss a Ron Howard -futuro protagonista del telefilm “Happy Days” e poi a sua volta regista hollywoodiano di vaglia-, dal tenero Smith al fragile falso duro LeMat; e c’è anche Harrison Ford alle prese con una specie di prova generale della sbruffonaggine di Han Solo.

Parimenti indimenticabile (e costosissima) la colonna sonora: 41 brani della Golden Age rock che spaziano dall’inevitabile “Rock Around the Clock” di Bill Haley and the Comets a “All Summer Long” dei Beach Boys, incrociando leggende dimenticate come Buddy Holly, Chuck Berry, Platters, Del Shannon e Fats Domino, con contributi “live” (come la fenomenale “At the Hop”) di Flash Cadillac & the Continental KIds. Fu un successo inimmaginabile a ogni latitudine, che aprì la strada a un intero filone “nostalgico” non avaro di altri capolavori (uno su tutti: “Un Mercoledì da leoni/Big Wednesday”, 1978, di John Milius. E sei anni dopo originò un sequel/flop sconosciuto ai più ma forse da rivalutare: “American Graffiti 2/More American Graffiti”, 1979, scritto e diretto -con il placet di Lucas- da BWL Norton e incentrato sul futuro dei protagonisti (tranne il personaggio di Dreyfuss), ritrovati in un’America già profondamente cambiata e ferita in quattro episodi diversi per formato, grana e montaggio ambientati rispettivamente il 31 dicembre di quattro anni diversi (1964, 1965, 1966 e 1967).

11 agosto 2023 (modifica il 11 agosto 2023 | 07:12)

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here