«Gli uccelli» compie 60 anni, capolavoro tra terrore e perfezione tecnica- Corriere.it

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di Filippo Mazzarella

Il film di Hitchcock all’inizio venne accolto freddamente, ma poi divenne un classico

Presentato in anteprima a New York con una proiezione a inviti organizzata dal Museum of Modern Art il 28 marzo 1963, «Gli uccelli/The Birds» di Alfred Hitchcock è tuttora considerato uno dei capolavori del suo autore (e della storia del cinema tutta). Fu tiepida però l’accoglienza iniziale (soprattutto statunitense: memorabile la stroncatura, tra le altre, di Brendan Gill sul New Yorker) di una critica spiazzata da un oggetto all’apparenza difficilmente inquadrabile e in qualche misura definitivamente alieno al corpus del regista inglese, malgrado i suoi diretti predecessori nella filmografia del Maestro fossero stati il non meno straordinario Psyco (1960), testimonianza di una precisa volontà di deriva nei territori dell’horror, e il sorprendente Intrigo internazionale (1959) che sin dal suo “impossibile” titolo originale (il nonsense geografico North by Northwest) giocava subdolamente, sovvertendole, con le regole stesse della narrazione “classica” e con i codificati rapporti di causa/effetto del thriller.

Gli uccelli sussumeva entrambe queste caratteristiche: in una struttura narrativa stavolta scopertamente fantastica che i due film citati (e in qualche misura pure l’ancora direttamente precedente La donna che visse due volte/Vertigo, 1958) adombravano solo a livello percettivo, riducendo il puro dato di racconto a un livello apparentemente pretestuale per esplodere in pure e avanzatissime forme di cinema dove a farla da padrone era il sopravvento dell’immagine su qualunque altro elemento di base. Tutta la “storia” del film, tutti i suoi elementi “normativi”, sono esperiti nella prima parte: dove dapprima, a San Francisco, l’avvocato Mitch Brenner (Rod Taylor) incontra fortuitamente in un negozio di animali in cui intende comprare una coppia di pappagallini da regalare alla sorella quattordicenne Cathy (Veronica Cartwright) la ricca e volubile Melanie Daniels (Tippi Hedren), che dileggia fingendo di scambiarla per la commessa pur avendola in realtà da subito riconosciuta come passata protagonista, in tribunale, di un processo per guida in stato di ebbrezza; e poi, a dispetto del battibecco che si genera tra i due una volta svelata la verità, la donna s’incapriccia comunque dell’affascinante legale.

Per rincontrarlo, dopo essersi appuntata la targa della sua automobile e aver desunto il suo indirizzo cittadino, Melanie acquista gli uccellini che l’uomo cercava e per consegnarglieli lo insegue da Frisco alla cittadina balneare di Bodega Bay, dove l’uomo passa i weekend in compagnia della madre Lydia (Jessica Tandy) e della sorella. Con un piccolo motoscafo a noleggio, Melanie raggiunge segretamente la villetta dei Brenner dove lascia la gabbietta con gli animali e viene poi inaspettatamente attaccata da un gabbiano che la ferisce lievemente alla testa. Approfitterà dell’invito di Cathy alla sua festa del giorno dopo rimanendo in loco per la notte ospite di Annie Hayworth (Suzanne Pleshette), la maestra scolastica della ragazzina che ebbe un vecchio flirt con Mitch; ma da quel momento in avanti, mentre cercherà comunque di entrare in una sorta di strana intimità con l’avvocato rivelandogli particolari dolorosi del suo passato, tutti i volatili del luogo inizieranno una terrificante, sempre più violenta e inspiegabile rivolta contro di lei e tutti gli altri residenti. Un sovvertimento dell’ordine che (forse) si estenderà indefinitamente anche al resto del mondo.

Sceneggiato da Evan Hunter (successivamente famoso come scrittore poliziesco con lo pseudonimo di Ed McBain) sulla base di un breve racconto omonimo di Daphne du Maurier del 1953, “Gli uccelli” segna come già detto l’incursione (destinata a rimanere unica) di Alfred Hitchcock nei territori del fantastico puro, in una dimensione horror che farà scuola per decenni sia al cinema (è il film che inaugura la lunga stagione del genere di ostilità del mondo animale all’umanità) sia in letteratura (se ne ricorderà certamente, tra gli altri, anche Stephen King per il suo memorabile romanzo “Cujo” del 1981): ma è anche un’allegoria apocalittica quasi biblica (l’attacco degli uccelli, non a caso anche la figura principale con cui venivano raffigurati gli psicopompi – ossia i traghettatori delle anime dei defunti nella mitologia greca – , può essere letta come la reazione di un vendicativo Creatore nei confronti di un’umanità che lo ha deluso?) e una riflessione su ogni diversa forma di afflizioni e ansie di una società in mutazione. Ma, in ultimo, è anche una sorta di “manuale” a posteriori per tanti registi di genere che consapevolmente o meno ne hanno sviluppato le intuizioni (il ribaltamento del luogo di salvezza dall’esterno all’interno della parte finale di assedio domestico è senz’altro alla base dell’analoga costruzione rovesciata di “La notte dei morti viventi” di George A. Romero, per esempio) e i per l’epoca intentati e avventurosi eccessi splatter (come lo scioccante ritrovamento del cadavere con i bulbi oculari mancanti).

Dove, per una volta, la gestione della suspense hitchcockiana “tradizionale” si trasforma e si ribalta in un’escalation orizzontale di terrore e in una continua ricerca di perfezione tecnica (la fotografia ricca di ingegnosi “trucchi” è del fido Robert Burks, che vinse proprio con “Caccia al ladro/To Catch a Thief”, 1956, di Hitchcock l’unico Oscar della sua carriera, dopo la nomination per “La finestra sul cortile/Rear Window” l’anno prima). Dalla partenza della rivolta al suo epilogo “aperto”, ogni setpiece è infatti più complesso e stupefacente del precedente (vedi la sequenza della cabina telefonica in cui è temporaneamente intrappolata la Hedren, risolta con effetti speciali che anche nell’era odierna del digitale fanno strabuzzare gli occhi), mentre il quadro visivo si addensa di progressivamente elementi in misura proporzionale al montare metafisico del senso di minaccia indecifrabile rappresentato dal ribaltamento dell’abituale rapporto tra civilizzazione e natura. Hitchcock stavolta non dà risposte.

Nessuna delle ipotesi messe in campo viene sottolineata o messa in evidenza: e nemmeno la chiusura offre una qualsiasi chiave di interpretazione dell’accaduto o una qualunque supposizione sulle sue conseguenze (evento isolato o abbrivio di una “mutazione” globale?). Una tensione che prima ancora di rovesciarsi nell’inconscio degli spettatori (anche se l’incasso dell’epoca fu di “soli” 12 milioni di dollari a fronte degli oltre 3 di budget) ebbe ripercussioni dirette sul cast e la troupe: le riprese subirono uno stop di una settimana a causa di un crollo nervoso di Tippi Hedren e la lista di tecnici della troupe finiti al pronto soccorso a causa della scarsa gestibilità dei coprotagonisti pennuti si allungò fino all’ultimo ciak. Rivisto oggi, forzandone oltre ogni limite la lettura metaforica, può ovviamente sembrare anche un film “pandemico” ante litteram; ma la sua forza, inalterata, resta quella puramente iconica. Fotogramma dopo fotogramma, è una sorta di antidoto a un’era (la nostra) in cui la proliferazione esponenziale e incontrollabile delle immagini è direttamente proporzionale al depotenziamento (quasi) terminale dei loro significati.

28 marzo 2023 (modifica il 28 marzo 2023 | 14:08)

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