Professor Musacchio lei ha insegnato diritto penale e criminologia in molte università italiane ed estere, quali pensa siano le principali cause dei suicidi in carcere?
Siamo di fronte ad un problema particolarmente complesso e multidisciplinare. Il sovraffollamento e l’assenza di servizi di assistenza psicologica e sanitaria sono le cause primarie. La situazione da anni è davvero gravissima. Sul problema del sovraffollamento delle carceri andrebbero risolti i problemi che riguardano gli spazi inadeguati, le condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili, il personale penitenziario in sottorganico.
Cosa si potrebbe fare nell’immediato secondo lei?
Sicuramente depenalizzare evitando di creare nuovi reati per risolvere qualsiasi problema di politica criminale. Non serve a mio parere neanche costruire nuove carceri. Serve un sistema penale in armonia con la nostra Costituzione. Una pena effettiva ed efficace per reati gravi sempre nel pieno rispetto della dignità della persona umana.
Professore lei ha mai visitato qualche istituto penitenziario?
Tanti. Mi ricordo Brescia, Bologna, Larino, Campobasso.
Cosa le è rimasto impresso di queste visite?
Ci sono stato per motivi di lavoro, tuttavia, il fatto che più mi ha colpito è il rumore di chiusura della porta d’ingresso oltre agli sguardi di molti detenuti che probabilmente non dovrebbero stare lì. Il carcere è una comunità chiusa che meriterebbe più attenzione e maggiore apertura verso la società civile.
Di cosa ha bisogno l’art. 27 della Costituzione per realizzarsi in tutti i suoi principi fondamentali?
Ha bisogno soprattutto di grandi investimenti in termini economici e di risorse umane. Ci sono molti detenuti con malattie psichiatriche, questo secondo lei incide sui suicidi? Assolutamente sì. Le persone affette da patologie psichiatriche spesso non sono compatibili con il carcere. Il disagio psichico non può trovare adeguato trattamento in carcere, c’è bisogno di strutture che siano in grado di garantire un percorso terapeutico e contenere la pericolosità sociale.
Secondo lei chi decide sulla libertà personale dovrebbe conoscere i luoghi dove questa sia privata?
Sì. Decidere la detenzione di un individuo dovrebbe poter significare anche conoscere il sistema carcerario. Chi si occupa di diritto penale, come me che lo insegno e lo pratico da oltre trent’anni, dovrebbe conoscere a fondo il “mondo” penitenziario, e avere un’idea precisa di come si viva nelle carceri. Nel 1996 scrissi su “La Giustizia Penale” che la formazione dei nuovi magistrati dovesse contenere un tirocinio mirato in carcere. A distanza di venti anni ancora si discute su questo.
Che cosa pensa dell’ergastolo e della sua funzione?
Credo questo sia un tema molto complesso. L’ergastolo è, oggi, ritenuto ancora necessario ed è compatibile con la Costituzione poiché dopo un congruo periodo di espiazione della pena si trasforma in pena temporanea.
Da più parti della dottrina si discute sull’abolizione del carcere. Che ne pensa?
Credo purtroppo il carcere sarà ancora per molto tempo parte del sistema penale. Se mi si parlasse di abolire il carcere nella situazione in cui è oggi, sarei d’accordo. Nel caso s’intendesse abolizione del carcere come ripensamento della funzione della pena e della restrizione della libertà personale per determinati reati, il discorso diventerebbe molto più complesso e articolato. La pena non può non essere proporzionata alla gravità del delitto, non può essere mai vendetta contro il reo, ma non può neanche essere totalmente svuotata della sua essenza. L’afflittività è un elemento essenziale della pena che trova il suo limite quando viola la dignità della persona umana. Percorsi alternativi al carcere sarebbero auspicabili a mio avviso per tutta una fascia di reati di bassa e media gravità.
Come vede il sistema di giustizia riparativa, può diventare l’alternativa all’attuale diritto penale?
Se la giustizia riparativa è intesa come coinvolgimento della vittima e del reo nel processo di guarigione dalla ferita provocata dal reato, sono d’accordo. Questa visione però deve centralizzare fortemente il ruolo della vittima nell’orizzonte del diritto e del processo penale. Molti penalisti criticano questa centralizzazione della vittima, lei che ne pensa? L’errore che spesso si commette, è pensare che le vittime cerchino solo vendetta, non è per nulla così: le vittime cercano giustizia e verità. Per questo vanno ascoltate e aiutate a superare la sofferenza provocata dal reato.
In conclusione, il sistema carcerario attuale va ripensato?
Il carcere non può essere la soluzione alla mancanza di politiche sociali ed economiche da parte dello Stato. Dobbiamo avere il coraggio di dire che principalmente nelle nostre galere non ci sono corruttori, mafiosi, stupratori e assassini. La metà dei detenuti in carcere sono responsabili di reati contro il patrimonio. Se rubo una bottiglia di vino in un supermercato rischio la detenzione. Ci sono invece persone che provocano molti più danni alla società, dal punto di vista politico ed economico, ma in carcere non ci stanno. Il dettato costituzionale e il moderno diritto penale sono gli strumenti con cui operare. Dobbiamo però cominciare a riflettere seriamente e concretamente sul futuro del nostro sistema carcerario. Su questo tema purtroppo il dibattito è ancora fermo alla sola teoria.
Vincenzo Musacchio, criminologo, docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (Stati Uniti). Attualmente, è ricercatore indipendente e membro ordinario dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nel corso della sua carriera, ha avuto l’opportunità di collaborare con figure di spicco della lotta alla mafia come Antonino Caponnetto, magistrato di notevole esperienza che ha guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni Ottanta. È unanimemente riconosciuto come uno dei massimi esperti delle nuove mafie transnazionali. Esperto in strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati, scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È riconosciuto come il principale esperto europeo di mafia albanese e i suoi studi approfonditi in quest’ambito sono stati impiegati anche da commissioni legislative a livello europeo.