«Il sol dell’avvenire», Nanni Moretti si interroga nel tramonto delle certezze di una volta (voto 8 e 1/2)- Corriere.it

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di Paolo Mereghetti

Il regista tra ripensamenti e amarezza che non escludono ironia e divertimento

Non è un film testamentario e non è nemmeno un film ricapitolativo (nonostante la parata di volti finali). Piuttosto è un film interrogativo, malinconicamente interrogativo: con «Il sol dell’avvenire» sembra proprio che Moretti abbia voluto interrogare se stesso e soprattutto il suo pubblico, non per tirarne un qualche tipo di bilancio ma piuttosto per chiedersi e chiedere che senso può avere fare ancora film «alla Moretti».

Evidentemente il non brillantissimo esito dell’ultimo «Tre piani» (la prima volta in cui il regista si affidava a una storia di altri, dove anche la sua presenza era limitatissima) e il fatto che in tanti tra il pubblico avessero lamentato l’assenza di quell’armamentario di battute e gag da far entrare nell’uso, deve averlo spinto a una qualche riflessione. Nei suoi modi, ovviamente, che non escludono ironia e divertimento (anzi, si ride molto nel film) ma che comportano anche una bella dose di ripensamenti e di amarezza.

Proprio a cominciare dal soggetto, la storia incrociata del regista Giovanni (Moretti, ça va sans dire) e del film che sta girando. Lo vediamo preparare le riprese, discutere con la moglie Paola (Margherita Buy) che da quarant’anni gli produce i film e con la figlia Emma (Valentina Romani) a cui ha affidato le musiche, poi con gli attori e la troupe e fare sopralluoghi notturni in monopattino con il coproduttore francese (Mathieu Amalric). E poi, ecco che dalle scene di set si passa direttamente a quelle del film, ambientato nel 1956, quando il dirigente di una sezione di periferia del Pci romano (Silvio Orlando), affiancato dalla moglie altrettanto militante (Barbora Bobulova), ha invitato il circo ungherese Budavari, che pianterà le tende proprio quando gli ungheresi si ribellano al regime, per essere di lì a pochi giorni schiacciati dai carri armati sovietici.

Alternando continuamente i due piani temporali e le due storie, Moretti (che ha scritto la sceneggiatura con Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella) riesce a raccontare il privato e il professionale, il set e il film, il marito e il regista mescolando, con una libertà narrativa che rimanda a «Caro Diario», il morettismo e la riflessione sul cinema, l’ironia (e in dosi massicce l’autoironia) e la malinconia. Perché sarebbe sbagliato fermarsi al «solito» campionario di manie e idiosincrasie: i riti scaramantici, il disprezzo per i sabot e le pantofole, la reiterazione dei ciak, la voglia di intervenire nelle vite altrui e nei film altrui, la passione per le canzoni italiane in primis.

Quello c’è tutto così come alcune evidenti autocitazioni, ma dopo la risata si affaccia qualcos’altro, che il volto di Moretti attore sottolinea in maniera inequivocabile: è come se stesse ubbidendo a una specie di coazione a ripetere, «costretto» ad accontentare un pubblico che da lui vorrebbe solo quel tipo di divertimento. Forse non è casuale che il soggetto del film nel film sia il tormento dei militanti comunisti di fronte all’invasione sovietica e all’ortodossia del Pci, quasi che Moretti si sia sentito come chi era stato obbligato a rientrare nei ranghi dell’ortodossia e non a seguire la passione che invece trionfa nell’utopico cartello che chiude il film.

Lo ribadisce anche dal punto di vista del protagonista a cui il balletto e la sfilata finale non possono nascondere il suo doppio fallimento, quello umano di marito e quello professionale di regista: sui due fronti dovrà fare i conti con una inequivocabile sconfitta. Certo Moretti non è persona che si arrenda facilmente, nel dialogo che instaura con lo spettatore dà prova di una caparbietà che non vuole accettare la sconfitta e da qualche parte un punto a suo favore lo segna (per esempio con la coppia di fidanzati riluttanti che guardano «La dolce vita») ma le ferree certezze di una volta sono tramontate da tempo. Senza però piangersi addosso o lasciarsi andare a inutili nostalgie: il sole che illumina l’avvenire, sembra dirci il film, continuerà a sorgere ma non potrà più nascondere le ferite che ci hanno e ci siamo fatti.

18 aprile 2023 (modifica il 18 aprile 2023 | 20:30)

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