Prima di quella elettorale, arriva quella vera, la più amata e simbolica. La Maratona di New York. Come un rito catartico nel trittico di inizio novembre che qui è cominciato con la parata di Halloween al Greenwich Village. Quante storie e avventure si rincorrono lungo i 42 chilometri da Staten Island al cuore di Manhattan, Central Park. Sogno americano che dura da 53 anni: e, mediamente, 100mila runner richiamati da un’idea, maturata sul finire dell’estate del 1970 nella testa di Vincent Chiappetta e Fred Lebow, di quest’ultimo c’è la statua che lo rappresenta nei pressi dell’arrivo mentre prende il tempo ai maratoneti. I due decidono di fare una corsa tra amici, all’inizio tutta all’interno di Central Park, per celebrare la loro città, la New York che non dorme mai, megalopoli che con i grattacieli corre verso l’alto, sì, ma anche lungo l’asfalto, da cui ha preso forma il mito di maratoneti come Bill Rodgers, Alberto Salazar e Grete Waitz. Ma che è, anzitutto, un rito collettivo cui si accede con il pettorale, che all’inizio costava un dollaro, ora un po’ di più, e che invortica tutta la città in un viaggio nei cinque distretti di New York, attraverso il meltinpot di culture, etnie, situazioni e contesti sociali, stretti nell’abbraccio olistico della folla di appassionati, parenti, amici, newyorkesi, turisti, contagiati per scelta o per caso, tra i cartelli d’incoraggiamento e il contorno di orchestrine, come quella che ormai da decenni immancabilmente intona al quattordicesimo chilometro il tema del film Rocky. Per una sintesi magica. Per una fantastica illusione di poter dare così un morso alla Grande Mela. 

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