La pagella del Mereghetti: «Hometown – La strada dei ricordi» Polanski e Horowitz: viaggio in Polonia per non dimenticare (voto 8)

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di Paolo Mereghetti

Dialogo tra i due sul senso della memoria e sul confronto con il passato

«Sarebbe stato meglio se tutta la mia vita fosse andata diversamente… Tutti hanno problemi ma non hanno il pesante fardello che ho dovuto portare per tutta la vita». È la voce di Roman Polanski che accoglie lo spettatore mentre sta tornando insieme al fotografo Ryszard Horowitz a Cracovia, più o meno cinquant’anni dopo averla abbandonata. Si considerano entrambi «cracoviani» doc (anche se Polanski era nato a Parigi ma quando aveva tre anni, nel 1936, l’antisemitismo crescente in Francia aveva spinto i genitori a rientrare nella città natale del padre) e per questo hanno accettato la proposta di due documentaristi polacchi, Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, di tornare nella città dove avevano vissuto da adolescenti. Una città che li aveva visti fare i conti con l’invasione nazista e quello che aveva comportato. Il risultato è «Hometown – La strada dei ricordi», un film che va molto al di là del documentario che voleva essere, per diventare una riflessione sul senso della memoria e sul confronto con il proprio passato.

Lo dice subito Horowitz, di sei anni più giovane di Polanski (è nato nel 1939), quando ammette che nonostante gli anni passati lontano — da tempo vive a New York — si accorge tornando in quei luoghi che «tutto è fissato nella memoria» perché, come ribadisce Polanski, «ogni pietra ricorda qualcosa». Così seguiamo i due amici aggirarsi per le strade, riconoscere case e piazze, ritrovare il cinema dove andavano da bambini («Quante volte abbiamo visto “Biancaneve”?») ma accorgersi anche che quel percorso non è innocente o indolore e che la memoria, specie quella di avvenimenti dolorosi, fatica a trovare una strada per esprimersi a parole.

Polanski prima sembra volersi nascondere dietro la difficoltà di dare una forma razionale al dolore («è difficile raccontarlo, bisogna averlo vissuto») poi, quando inizia a ripercorrere gli avvenimenti che videro i suoi genitori deportati — la madre ad Auschwitz, da cui non tornò, il padre a Mauthausen, dove invece riuscì a sopravvivere — ammette che i ricordi possono essere terribili: «non li voglio cancellare» ma devono «restare nella memoria così come sono perché non li voglio deformare». E a Horowitz che gli fa notare come i ricordi belli si stampano nella mente mentre quelli brutti finiscono per essere come sfocati, risponde che «è per questo che non voglio fare un film su quel periodo a Cracovia: sono ricordi importanti per me e questa visita li sta un po’ offuscando, ma sarebbe peggio se facessi un film, se dovessi rifare tutto artificialmente: non rimarrebbe più nulla nella mia memoria».

Ecco che allora il film non è solo l’occasione per ripercorrere con questi due artisti gli anni bui dell’occupazione nazista di Cracovia, con la costruzione del muro che delimitava il ghetto e i continui rastrellamenti, ma anche riflettere sul peso e il valore che la memoria può avere. Da una parte c’è la sconsolata reazione di Horowitz, la cui famiglia e lui stesso seienne sopravvissero ad Auschwitz perché i genitori erano stati operai di Schindler che li protesse dalle camere a gas: «Le persone non imparano niente dalla Storia, non traggono nessuna lezione» dice.

Dall’altra c’è il comportamento opposto di Polanski che cerca nell’ironia e forse anche un po’ nel cinismo la forza per fare i conti col suo passato: quando racconta il funerale del padre, con tutti gli inconvenienti a cui dovette far fronte a cominciare dai becchini completamente ubriachi delle onoranze Bongo (questo l’inspiegabile nome di chi organizzava le sepolture), solo la risata sembra capace di esorcizzare un ricordo che dovrebbe invece scatenare le lacrime. E con la stessa leggerezza un po’ incosciente di chi sa che non può abbandonarsi al dolore dei ricordi, lo vediamo ritrovare il nipote della donna che lo nascose in campagna quando i genitori erano stati deportati. Un atteggiamento apparentemente superficiale ma invece profondamente umano, di chi ha molto sofferto («siamo prodotti del passato» dice Horowitz) e però non vuole smettere di aver fiducia nella vita.

22 gennaio 2023 (modifica il 23 gennaio 2023 | 21:00)

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