la rappresentazione del Male secondo Peter Brook- Corriere.it

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di Filippo Mazzarella

Il film del grande regista teatrale venne inizialmente accusato di «troppa crudezza»

Nel 1954, lo scrittore e poeta inglese William Golding (insignito del Nobel nel 1983) esordì nella narrativa con un romanzo immediatamente baciato da un successo sensazionale e irripetibile: “Il signore delle mosche/Lord of the Flies”. Pubblicato da Faber & Faber, casa editrice diretta da Thomas Stearns Eliot, il libro aveva avuto a lungo come titolo di lavorazione “Strangers from Within”; ma fu proprio Eliot a suggerire a Golding di cambiarlo con uno più suggestivo e che dichiarasse più esplicitamente la metafora satanica nascosta tra le pagine dell’opera.

In molti, dopo la pubblicazione, cercarono di realizzarne una trasposizione cinematografica: la spuntò il grande regista teatrale Peter Brook, i cui unici film realizzati in precedenza erano stati i più “semplici” “Il Masnadiero/The Beggar’s Opera” (1953) e l’adattamento di un romanzo di Marguerite Duras: “Moderato Cantabile – Storia di uno strano amore” (1960). Per Brook, “Il signore delle mosche” rappresentò una duplice sfida: da una parte, per la difficoltà di rendere senza tradirle le atmosfere agghiaccianti e visionarie del modello letterario che esplorava sia la fragilità sia il dualismo della natura umana sottolineandone la caratteristica di apologo sulla nascita dei totalitarismi; dall’altra, per la scelta radicale di girare esclusivamente in esterni nell’isola portoricana di Vieques e con un cast composto esclusivamente di bambini non professionisti. Ne uscì un’opera che ancor oggi non somiglia a null’altro e che fu presentata in anteprima il 12 maggio 1963 al Festival di Cannes per poi essere distribuita (non senza difficoltà: in Inghilterra la sua crudezza fu cagione di un pesantissimo divieto ai minori, mentre in Italia fece la sua prima comparsa ufficiale nelle sale solo quattordici anni dopo, nel 1977) quella stessa estate.

“Il signore delle mosche” è ambientato in un distopico 1984, mentre è in corso un conflitto termonucleare globale. Quando, nel pieno di una tempesta, un aereo con a bordo un gruppo di ragazzi inglesi composto da studenti e giovani coristi sottratti alla brutalità della guerra precipita su un isolotto deserto, solo due di essi sembrano inizialmente essersi salvati: il sensibile Ralph (James Aubrey) e l’occhialuto “Bombolo” [in originale “Piggy”] (Hugh Edwards). Presto, i due vengono però raggiunti da molti altri sopravvissuti al disastro, come i gemelli Sam ed Eric (David e Simon Surtees), e i più inquieti Jack (Tom Chapin) e Simon (Tom Gaman). Mentre il gruppo si organizza per sopravvivere dividendosi in due squadre capeggiate rispettivamente da Ralph e Jack, l’allucinato Simon si convince dell’esistenza di una pericolosa “bestia” strisciante che potrebbe nascondersi nei recessi più remoti dell’isola. E intanto il gruppo, che ha provato ad autogovernarsi con regole precise senza alcun controllo di una potestà adulta, inizia poco per volta a regredire a uno stadio umano sempre più primitivo. Mentre emergono timori ancestrali non razionali, i due team si dividono definitivamente dopo che Ralph accusa Jack di aver deliberatamente spento il fuoco che avrebbe potuto segnalare la loro presenza a un aereo di passaggio che avrebbe potuto localizzarli; e quando Jack decide di organizzare un rituale in favore della “bestia” offrendole il cranio di un maiale brulicante d’insetti inastato su un bastone piantato nel terreno (il “signore delle mosche” del titolo, ovvero il biblico Beelzebub), la situazione degenera definitivamente. E Simon pagherà cara la decisione di avventurarsi tra le rocce ove ritiene si annidi l’entità.

Per rispetto di chi non sia a conoscenza dell’evolversi degli eventi narrati, conviene fermarsi un passo prima degli sviluppi che porteranno al drammatico epilogo, figlio della celebre convinzione di Golding (e di Brook) che “l’uomo produce il male come le api producono il miele”. “Il signore delle mosche”, a conti fatti, non è null’altro che questo: una riflessione pessimistica e disperata sulle possibilità di collaborazione sociale tra esseri umani, acuita dalla trovata amarissima di mettere al centro della narrazione un consesso di futuri adulti già pesantemente informati dai limiti e dalle contraddizioni di un modello “democratico” difficilmente attuabile in purezza. Dove la visione armonica sulla lunga distanza viene soverchiata dall’individuazione di un presente che offusca la razionalità e in cui il Male dei singoli ha la meglio sull’idea stessa di collettività. Brook e Golding adattarono il romanzo a quattro mani, riducendo i tempi dell’azione ed eliminando alcuni dettagli (come la testa di maiale che “parla” a Simon) a favore di una maggiore secchezza (e crudezza). Il loro obiettivo era infatti semplificare ulteriormente la materia per arrivare a isolare simbolicamente quello scarto della ragione che in potenza, e in metafora, è alla base della nascita dei totalitarismi: e il personaggio-chiave della vicenda è infatti il giovane Jack, che gli eventi portano a macchiarsi di un misfatto tanto più crudele quanto più inatteso e casuale, ponendolo in una sorta di posizione di leadership in una illusoria acquiescenza collettiva.

Questa impostazione rigidamente a tesi è però anche il più evidente limite del film, malgrado parte della critica coeva gli mosse appunti non tanto sul piano della esibita programmaticità quanto, più superficialmente, su quello della tenuta spettacolare e della scarsa efficacia dei troppo inesperti giovani attori (comunque scelti dopo un casting di tremila aspiranti). Visto oggi, il film funziona invece ancora e soprattutto proprio per questo presunto “difetto”: e i contributi spesso davvero tentennanti e incerti dei protagonisti alle prime armi finiscono con l’accentuarne le caratteristiche di ruvido espressionismo. Perché anche se l’approccio iniziale di Brook fu dichiaratamente quello di applicare alla materia gli stilemi della narrazione documentaristica, il risultato finale, con le sue allegorie e i suoi squarci lirici e beffardi (come nella memorabile sequenza in cui il gruppo guidato da Jack marcia sulla spiaggia intonando un Kyrie Eleison che diventa terrificante presagio di corruzione) attiene senza dubbio a quella sospensione/dispersione del realismo centrale e fondamentale nel più acuto (e puro, e “politico”) cinema “di genere”.

11 maggio 2023 (modifica il 11 maggio 2023 | 07:24)

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