«Le grand chariot» di Philippe Garrel, come un testamento in forma di commedia- Corriere.it

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di Paolo Mereghetti

Alla Berlinale i film abbandonano l’apertura sul mondo esterno per ripiegarsi su un intmismo spesso problematico

Le conseguenze della pandemia si sono fatte sentire alla Berlinale. I film hanno abbandonato le tradizionali aperture sul mondo esterno (in passato letto attraverso la politica) per ripiegarsi su un intimismo spesso problematico e a volte insoddisfacente, ma che nei registi più reattivi ha aperto interessanti spazi di riflessione.

Il settantaquattrenne Philippe Garrel con «Le grand chariot» firma un film che si sarebbe detto testamentario (forse lo è) se non fosse che ha la leggerezza e l’allegria delle commedie. Il maturo gestore di un teatro di marionette, chiamato appunto «Le grand chariot», ha da sempre coinvolto nella sua attività i tre figli (Louis, Esther e Léna Garrel, i tre veri figli del regista), ma quando lui muore il sodalizio si rompe e la compagnia rischia la scomparsa.

Le nuove generazioni vogliono seguire strade diverse da quelle dei padri e il film non solo lo accetta ma finisce anche per incoraggiare il cambiamento, dimostrando che non andranno necessariamente incontro a un fallimento: Garrel padre sa bene che il cinema che ha testardamente inseguito per anni non ha più spazio oggi e lascia in eredità ai figli l’invito a nuove sperimentazioni, a nuove avventure, in una specie di passaggio di consegne senza rimpianti né malinconie.

Il cinquantenne Christian Petzold invece mette in gioco sé stesso con «Roter Himmel» (Cielo rosso) raccontando di Leon (Thomas Schuibert), un giovane romanziere che si ritira con un amico fotografo in una casa isolata vicino al mare per rileggere il proprio manoscritto in attesa dell’incontro con il suo editor. Ma nella casa si è trasferita anche un’amica di famiglia, Nadja (Paula Beer), che non solo disturba la quiete del luogo con le sue prodezze sessuali ma si rivela anche una lucida critica letteraria. Mettendo ancor più in crisi Leon.

Impossibile non vedere nel protagonista quasi uno specchio del regista, costretto a fare i conti con i temi delle aspettative del pubblico e della crisi creativa (come in 8 ½?) ma anche con un mondo esterno che non si muove come lui vorrebbe e che interferisce con i suoi programmi, dove anche un incendio boschivo (il «cielo rosso» del titolo) lo costringe a ripensare al proprio lavoro. Obbligandolo a misurarsi con quella realtà che voleva rimuovere.

23 febbraio 2023 (modifica il 23 febbraio 2023 | 21:13)

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