Mentre prosegue il trasferimento della popolazione civile del sud al nord di Gaza, con il progressivo aumento dell’afflusso di aiuti umanitari – e i paralleli trasferimenti dei prigionieri palestinesi, che Israele rilascerà in cambio della liberazione degli ostaggi da parte di Hamas – gli occhi della diplomazia mondiale sono puntati sull’Egitto, su Sharm el-Sheik, ultima sede dei decisivi colloqui tra le due parti che hanno portato all’accordo sul cessate il fuoco, raggiunto tra mercoledì e giovedì scorsi sulla base del Piano di pace in 21 punti proposto dal presidente americano Donald Trump.
Ed è proprio sul capo della Casa Bianca che si concentreranno i riflettori, per il ruolo giocato in questa complicatissima partita, alla luce di un successo personale che, se verrà confermato dai fatti, costituirà probabilmente il fiore all’occhiello della sua seconda presidenza (almeno finora).
La cerimonia della firma degli accordi, presente anche l’Italia con Meloni
La cerimonia di lunedì per la firma dell’accordo tra Israele e Hamas sarà copresieduta dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, oltre a Trump. La conferma arriva dai media del Cairo, secondo i quali sono stati ufficialmente invitati anche i leader di Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Turchia, Arabia Saudita, Pakistan e Indonesia. In rappresentanza di Roma, parteciperà Giorgia Meloni.
Il vertice è stato al centro di un colloquio telefonico preparatorio, tenutosi ieri, tra il ministro degli Esteri del Cairo, Badr Abdel Aty, e l’omologo Usa, Marco Rubio. Per ora, non sarebbe prevista la partecipazione di Benyamin Netanyahu. Stesso discorso, per l’altra parte: non ci saranno esponenti di Hamas ma solo i negoziatori.
La visita-lampo di Trump in Israele prima di andare a Sharm
Prima di volare verso la nota località turistica sul Mar Rosso, il tycoon terrà una visita-lampo in Israele in seguito al rilascio degli ostaggi (su 48, una ventina ancora in vita) – rilascio previsto nella notte tra domenica e lunedì e comunque entro mezzogiorno del 13 ottobre – e per parlare davanti al Parlamento israeliano, la Knesset.
Superata la prima fase, si vedrà come proseguirà il consolidamento dell’intesa
Uno sfoggio di gloria, quindi, quello che Donald Trump si appresta a fare in Medioriente, proprio la dose giusta di vanto per alimentare l’ego del presidente. Eppure, se sarà vera gloria, lo si potrà dire solo nei mesi successivi. Se cioè l’accordo su cui Hamas e Israele apporranno le loro firme terrà. Se, in altre parole, si getteranno davvero le basi per un cambio di scenario radicale nella Striscia di Gaza. Se, oltre alle armi, taceranno le rivendicazioni e le rivalse e, quindi, se si potrà procedere al consolidamento dell’intesa, potendo quindi ragionare sul post. In primis, sulla governance politico-amministrativa, che secondo l’idea di Trump dovrebbe essere gestita da Tony Blair ma su cui, ad esempio, la parte palestinese si è subito detta contraria.
Il fattore “Bibi”
È un fatto, tuttavia, che Trump sia riuscito a mettere nell’angolo Bibi Netanyahu, suo grande alleato e amico (affetto ricambiato), che però presenta non poche divergenze rispetto al tycoon. Doppiogiochista, opaco, ambiguo, il premier israeliano negli anni ha fatto perdere la pazienza a diversi inquilini della Casa Bianca, avendone incrociati diversi da primo ministro più a lungo in carica. E anche Trump ha sbottato con lui, quando sembrava che l’accordo rischiasse di saltare (forse il vero auspicio di Netanyahu, per avere il pretesto di portare avanti i combattimenti): “Sei così fottutamente negativo” si è lamentato il tycoon.
Il cambio degli equilibri mediorientali
Allargando lo sguardo, nella strategia trumpiana – molto più lucida di quanto i detrattori siano portati ad ammettere – c’è la ripresa/riscrittura degli Accordi di Abramo, il grande programma di rilancio degli accordi tra Israele e importanti partner statunitensi nell’area, a partire dagli emirati arabici su cui il presidente ha fatto leva per costringere Bibi a trattare e ad accettare la fine delle ostilità.
L’attacco israeliano del 9 settembre a Doha, alla sede usata da Hamas per i negoziati, infatti, è stato quasi il superamento di una linea rossa, che ha indotto il capo della Casa Bianca a fare pressione su Israele perché non compromettesse ulteriormente la situazione, consapevole di quanto fosse prezioso l’apporto del neutrale Qatar nel suo ruolo di mediatore.
Il Premio Nobel per la pace… per il prossimo anno?
Intanto, ieri è stato assegnato il Premio Nobel per la pace 2025. E Trump (che non aveva fatto mistero di ambire a ottenerlo, anzi…) è rimasto deluso: a vincerlo è stata Maria Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana, che nel commentare la notizia ha detto di dedicarlo al presidente Usa. Il quale oggi ha scherzato con i cronisti nello Studio Ovale, già pensando al Nobel del 2026.