
Doveva essere un colpo da manuale, per racimolare un po’ di soldi rapinando l’avvocato proprietario di una cascina. Ma le cose non andarono come previsto per quattro uomini in cerca di soldi facili; durante l’irruzione – mentre la famiglia dell’affittuario è riunita per festeggiare la nascita di una nipote – uno dei malviventi si scopre il viso per errore. Viene riconosciuto. E quindi il piano cambia improvvisamente: si decide di eliminare tutti i testimoni. E lo si fa in maniera scientifica, senza pietà: tutti in cantina uno per uno. Dieci persone portate dabbasso, colpite con una bastonata in testa e poi gettate in una cisterna.
E’ il 20 novembre del 1945. Il primo inverno italiano del dopoguerra. La strage di Villarbasse è forse un unicum, un omicidio di massa efferato. Paragonabile a nessun altro, almeno in Italia.
Ricorrono oggi gli ottanta anni di quella strage: nota alle cronache non solo per la crudeltà e il sangue freddo con cui vennero perpetrati gli omicidi ma anche perché i tre rapinatori vennero condannati a morte e fucilati. L’ultima sentenza capitale eseguita in Italia poco prima che le pena di morte fosse abrogata.
“Fu un processo velocissimo – racconta Maurizio Pilotti, autore del libro “Il massacro della Cascina” – Villarbasse e gli ultimi fucilati – c’era fretta di dare una punizione esemplare a questi tre disgraziati. Il presidente di allora Enrico De Nicola rifiutò la grazia e i tre vennero fucilati”.
Nel libro edito da Giunti Pilotti ripercorre con il suo stile da cronista di razza – è caposervizio alla Libertà di Piacenza e ha passato una vita a raccontare i fatti di cronaca della città in cui vive – una vicenda che forse in pochi conoscono. Una storia che ci racconta un’Italia povera e malandata, che a fatica ha messo il naso fuori dalla guerra e che combatte con le unghie e con i denti per sopravvivere. Freddo, fame, e povertà sono una costante di quegli anni. “Leggere i giornali di quell’epoca è stata un’esperienza incredibile – racconta Pilotti – intanto non erano i giornali come quelli di oggi: una paginetta stampata fronte retro. All’epoca si risparmiava anche sulla carta. E la cosa che mi ha colpito è che c’erano almeno due tre morti ammazzati al giorno. Notizie che per noi oggi meriterebbero paginate, all’epoca erano relegate in poche righe in fondo alla pagina. La morte evidentemente non era notizia, si era appena usciti dalla guerra. Morte e distruzioni erano drammatiche consuetudini”.
“Spero di non passare per un cinico – ci dice Pilotti – ma scrivere di questo massacro è stato un piacere. In ogni redazione, nei giorni un po’ opachi, c’è sempre quel caposervizio che dice: ci vorrebbe un bel delitto. Ecco: la storia di Villarbasse è arrivata a bussare alla mia porta in un periodo di stanca”.
E così Pilotti si è gettato a capofitto in un viaggio nel dopoguerra italiano. Un viaggio fatto di libri, di immagini, di ritagli di giornale “Anni che hanno tanti punti di contatto – questa l’idea che mi sono fatto – anche coi nostri”.
Le giornate alla biblioteca Sormani di Milano a spulciare tra le pagine di quei vecchi giornali sono state per Pilotti un viaggio magnifico in una sorta di macchina del tempo. “C’erano titoli pazzeschi, impensabili adesso: basti pensare che per tutta la fase processuale i tre assassini venivano definiti “terroni” e quello di Villarbasse era proprio “il processo dei terroni”.
Il libro di Pilotti racconta una storia senza dare giudizi “ma è certo che da parte mia, accanto alla la misericordia verso quelle dieci vite spezzate, c’è pure un senso di disagio per quei tre assassini sbattuti al muro e fucilati in una corsa contro il tempo solo per dare un ultimo esempio”.