I giudici della Corte costituzionale nominati dal Parlamento sono eletti in seduta comune delle due Camere, a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea nelle prime tre votazioni. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea. C’è, dunque, un numero da raggiungere: 603 voti pari a tre quinti dei 605, tra 400 deputati, 200 senatori e 5 senatori a vita. Questi sono i voti minimi necessari per eleggere un giudice costituente che i parlamentari di maggioranza, da soli, non sono riusciti a raggiungere. 

Questo muro contro muro tra le volontà della maggioranza e le prerogative dell’opposizione, se non abbattuto entro il 21 dicembre, quando si concluderà il mandato di altri tre giudici di nomina parlamentare (Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) potrebbe innescare un corto circuito pericoloso che rischia di mettere a rischio il funzionamento della Corte Costituzionale, colpendo direttamente quei meccanismi di ‘check and balance’ propri delle nostre istituzioni democratiche. 

Composta da 15 giudici, la Corte costituzionale è un organo collegiale le cui decisioni devono essere prese in sedute composte da almeno 11 giudici. Ci si troverebbe così di fronte ad una Corte Costituzionale con il minimo dei componenti e ogni assenza bloccherebbe il funzionamento della Consulta. Dunque il “muro di gomma” su cui rimbalzano le “esigenze” di ognuno potrebbe trasformarsi in una ferita pericolosa per la corretta gestione della nostra democrazia.

Il braccio di ferro è tutto politico: si tratta cioè di vedere se i quattro giudici da nominare entro il 21 dicembre saranno due espressione della maggioranza e due dell’opposizione o se la maggioranza governativa avrà la forza di costringere la minoranza parlamentare a rinunciare ad una nomina ed imporre tre dei quattro giudici.

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