Sesso ardito e parolacce, ma nella serie «La legge di Lidia Poët» manca la scrittura
Che azzardo! Prendere una storia vera di fine 800, con risvolti sociali non indifferenti, e far recitare gli attori come se si trovassero ai nostri giorni, mettendo in bocca alla protagonista frasi e interiezioni della contemporaneità. Sono quelle operazioni di straniamento che, se riuscite, possono sfiorare il sublime. Nel caso contrario, si lambisce il ridicolo. Netflix presenta «La legge di Lidia Poët», ispirata alla figura di una donna che ha combattuto una lunga battaglia per vedere affermato il suo diritto a svolgere la professione di avvocato battendosi poi anche per il voto alle donne. Curiosa la motivazione con cui la Corte di Appello di Torino le negò l’esercizio della professione: le donne devono dedicarsi ad altro, ovvero la famiglia e i figli, anche l’abbigliamento femminile mal si concilia con l’austerità della toga.
Ma veniamo alla serie: prodotta da Matteo Rovere, «La legge di Lidia Poët» si avvale di una splendida ambientazione torinese (la Film Commission Torino Piemonte ha a disposizione scenari fantastici; ho riconosciuto Palazzo Falletti Barolo); i costumi sono di rara fattura; la fotografia è molto attenta ai giochi di luce, ma manca una cosa. Manca la scrittura: non basta il fascino di Matilda De Angelis, non basta la battaglia per l’emancipazione dei diritti femminili e contro il bigottismo dell’epoca, non basta il «messaggio». È assente quel processo attraverso cui un’idea prende corpo nella struttura narrativa, nei dialoghi, nel respiro delle inquadrature, nella temperatura della recitazione. Gli autori volevano rileggere in chiave light procedural la storia vera di Lidia Poët, la prima avvocata d’Italia. Cioè hanno rifatto «La signora in giallo», con sesso ardito e parolacce. È curioso che Tinny Andreatta, dopo aver emancipato la fiction Rai, tenti soluzioni ibride per la piattaforma Netflix con i «vecchi» episodi autoconclusivi.
21 febbraio 2023 (modifica il 21 febbraio 2023 | 19:10)
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