L’attore ha vinto il Nastro d’argento per «Rapito»: «Spaziare è una forza»
«Per Marco Bellocchio avevo già fatto in Vincere il commissario prefettizio fascista Bernardi che adotta il figlio che Mussolini ebbe da Ida Dalser, il cappellano delle carceri in Esterno notte. Qui mi ha promosso Papa, un bel percorso». Ha lasciato il segno Paolo Pierobon con il Pio IX che ha interpretato in “Rapito”, il film sulla vicenda del piccolo Edgardo Mortara, che ha conquistato sette Nastri d’argento 2023 tra cui il suo, come miglior attore non protagonista. Veneto, classe 1967, corposa militanza in teatro, tra gli attori prediletti di Eimuntas Nekrosius e Luca Ronconi. «Marco l’ho trovato tante volte a fine spettacolo. È un regista molto attento al lavoro degli attori. I suoi set sono unici, piuttosto silenziosi con una concentrazione da prova teatrale».
Come avete dato corpo a Pio IX, l’ultimo sovrano dello Stato Pontificio?
«Mi sono lasciato guidare quasi ipnoticamente da un quadro di Francis Bacon, lo studio per il ritratto di Innocenza X ispirato a sua volta a quello di Velasquez. Questi papi urlanti ma silenti, questi contorni non bene delineati mi hanno aiutato».
Un personaggio complesso per un film complesso che tratta temi come antisemitismo, dogmi religiosi, abusi e soprusi del potere. Dopo le buone critiche a Cannes, ha incontrato anche il favore degli spettatori.
«Siamo felici del successo e dell’attenzione. È una storia dickensiana, la sottrazione di un bambino alla sua famiglia, ha la cifra del romanzo popolare, ma al tempo stesso trovi i temi cari a Marco, puoi pensarlo ancora come cinema sperimentale. Vive una rinnovata giovinezza artistica».
Voi attori, Gifuni, Ronchi, Alesi, sembrate artisticamente rapiti da lui.
«È un regista che cambia gli attori, coltiva i rapporti, ascolta. È circondato da un affetto ricambiatissimo. Se ti sceglie ti accorgi di ogni sua attenzione verso di te che magari non hai colto prima».
Come è diventato attore?
«Arrivo da Castelfranco Veneto, ma ho passato i primi 5 anni di vita a Pisticci, vicino Matera. È vero che i veneti sono i terroni del nord, mio padre emigrò al sud, all’Eni di Mattei. Attore perché? Uso un termine ottocentesco, ho sentito una chiamata, forse per superare l’insicurezza che per un attore è una gran ricchezza. Così sono arrivato alla scuola Paolo Grassi».
È vero che per mantenersi ha fatto anche le serate nei club per scambisti?
«Verissimo. All’epoca dovevano dimostrare di essere centri culturali e mettevano in scena spettacoli di “copertura» in cui chiamavano vecchi cabarettisti o noi ragazzi delle scuole. Molto beckettiano, entravi al buio e uscivi al buio, dalla porta di servizio con 50 mila lire e intuivi solo chi c’era sui divani».
Filippo De Silva di «Squadra antimafia», le ha dato popolarità televisiva.
«Rilanciata dal lockdown quando la serie è stata ritrasmessa. Lui è un cattivo sui generis, non sai veramente con chi sta, un po’ con la mafia un po’ con lo Stato».
Ancora più complesso sarà stato il Berlusconi delle serie tv «1993» e «1994».
«Per interpretarlo ho pensato al detto di Giorgio Gaber, il Berlusconi che è in te. Ho cercato di studiare quello più autentico che viene fuori dalle intercettazioni, dove non sa di essere né ripreso né registrato. Cambia voce, tono, ma fa sempre jazz. Ho cercato di inventare la persona lontano dalle telecamere. Il dato comune è l’estrema vitalità, clamorosa, l’ansia di sedurre continuamente, come un altro personaggio che ho interpretato, il D’Annunzio di “Qui rido io” di Martone».
Al cinema ha incontrato Salvatores, Martone, Virzì, ma anche la commedia di Zalone.
«Poter spaziare è una forza. Il legame più profondo, oltre a Bellocchio, è con Andrea Segre con cui ho fatto “L’odore delle cose”, “Welcome Venice”».
«Sempre, non ci rinuncio mai. Ora ho in cantiere un testo su De Gasperi».
26 giugno 2023 (modifica il 28 giugno 2023 | 10:24)
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