Pietra miliare della storia del cinema fantastico, pu essere letto come un aggiornamento del mito della Bella e la Bestia
New York, 2 marzo 1933. La premire di “King Kong”, diretto da Ernest B. Shoedsack e Merian C. Cooper, cambi per sempre la storia del cinema. Perch sulla base di una sceneggiatura di James Ashmore Creelman e Ruth Rose (a partire da un soggetto dello stesso Cooper a cui collabor anche il maestro della letteratura noir Edgar Wallace), il leggendario produttore David O. Selznick, tycoon della potente RKO Pictures, svilupp un’intuizione destinata a diventare un paradigma dell’entertainment moderno: l’applicazione della tecnologia al suo pi alto grado di stato dell’arte al cinema “popolare”. Dove l’effetto speciale divenne automaticamente “selling point” commerciale, ma al servizio di una narrazione in grado di trasportare il desiderio dello spettatore in territori di coinvolgimento sino a quel momento inesplorati, umanizzando il “mostro” al punto da sottrargli lo status di minaccia per sostituirlo con un’inedita e struggente empatia.
Agli albori della Grande Depressione, il tronfio regista documentarista Carl Denham (Robert Armstrong) sull’orlo del crack economico vorrebbe girare un nuovo film nei pressi di Sumatra e necessita di una protagonista che il suo agente fatica a trovare. Dopo averla individuata casualmente nell’inesperta, bellissima e indigente Ann Darrow (Fay Wray), si imbarca con lei, l’ufficiale Jack Driscoll (Bruce Cabot), il secondo Briggs (James Flavin) e il capitano Englehorn (Frank Reicher) alla volta della misteriosa Isola del Teschio, ufficialmente non segnata sulle carte. Una volta in loco, i membri della troupe vengono accolti con diffidenza dagli indigeni, che sono in procinto di celebrare uno strano rituale, e perci preferiscono tornare sulla nave per trascorrere la notte.
Qui, per, Ann viene rapita per essere offerta in sacrificio al dio dei nativi, un gigantesco scimmione chiamato Kong da cui la comunit protetta mediante un’alta muraglia. Kong, per, anzich ucciderla e divorarla, la rapisce a sua volta e la porta con s nella foresta proteggendola delicatamente. Per salvarla, Englehorn, Jack e Carl organizzano una spedizione; e dopo essersi imbattuti in creature preistoriche che decimano il team, mentre Kong tenta sempre pi strenuamente di difendere Ann dai mille pericoli dell’isola, a sopravvivere sono solo Driscoll, innamorato di Ann, e Denham, che dopo essere tornato al villaggio degli indigeni ha predisposto una trappola grazie alla quale riesce a stordire il mostro con dei gas lacrimogeni e a imprigionarlo con pesanti catene.
L’avidit dell’uomo lo porter, qualche mese dopo, a esibire “King” Kong come ottava meraviglia del mondo in un teatro di Broadway. Ma niente andr per il verso giusto: Kong riuscir a liberarsi e vagher per tutta New York alla ricerca di Ann, seminando terrore e distruzione; e una volta ritrovata l’”amata”, si inerpicher sull’Empire State Building, dove una pattuglia di biplani lo abbatter.
Pietra miliare della storia del cinema fantastico e del cinema tout court, “King Kong” pu essere letto come un aggiornamento del mito della Bella e la Bestia (come confermato dalla battuta finale del film pronunciata dal regista Denham), ma anche come “un’acuta riflessione sullo spettacolo e i suoi limiti” (P. Mereghetti), con “la capacit di interpretare, in forma di esorcismo, gli incubi presenti in una societ come quella americana” (id.). Se il lavoro che Shoedsack e Cooper compiono sugli elementi d’intrattenimento di base del cinema popolare infatti magistrale (con un apice teorico per l’epoca avanzatissimo: il parallelo tra la metropoli newyorkese e la giungla natia di Kong, dove alle insidie preistoriche delle montagne si sostituiscono la “moderna” aviazione e i grattacieli dello skyline), i registi riflettono anche platealmente sulla societ dello spettacolo e il suo desiderio di non fermarsi di fronte a nulla nel nome della possibile mercificazione di qualsiasi singolarit o sentimento.
Perch “King Kong” non solo una sorta di prolegomeno a tutto il fantastico a venire (ovvero il “padre” di “Jurassic Park” e di tutto quel cinema in cui la meraviglia dell’effetto speciale trascende e sublima lo spettacolo in una dimensione in cui la tecnologia ambisce a farsi poetica), ma anche una fiaba straziante dove il “mostro” perde progressivamente le sue caratteristiche orrorifiche e bestiali per trasformarsi in una creatura che agisce in virt del sentimento e non del male assoluto che inizialmente sembrava dover incarnare e metaforizzare. Il contributo del tecnico degli effetti speciali Willis O’Brien (gi celebre per la magia del suo operato esibita in “Il mondo perduto”, 1925, tratto da Conan Doyle) e del suo inclito staff (che comprendeva anche lo stimatissimo artista degli effetti visivi RKO Linwood Dunn e il geniale fonico Murray Spivack) determinante per questa mutazione di rotta: e la creatura realizzata in stop-motion (un modello articolato animato fotogramma per fotogramma) rappresenta ancora oggi, a novant’anni dalla sua realizzazione, un risultato strabiliante al pari di quello di tutte le altre per l’epoca raffinatissime e sorprendenti tecniche (retroproiezione, fusione di riprese dal vivo e miniature, matte painting, trucchi prostetici) messe in campo a profusione dal film.
Dopo un incipit a posteriori indiscutibilmente legnoso, “King Kong” si scatena infatti in una interminabile fantasmagoria di scene madri e di immagini che, pur naturalmente “invecchiate” in rapporto all’invisibilit odierna dell’artificio, conservano una sorta di “inquietudine dell’imperfezione” in grado di sollevarle al di sopra di qualsiasi sospensione dell’incredulit. Lo testimonia anche la “licenza poetica” oggi impensabile per quel che concerne le dimensioni di Kong, alto circa cinque metri e mezzo sull’Isola del Teschio, pi di sette sul palcoscenico del teatro di Broadway e infine circa quindici nell’epilogo sull’Empire State Building in cui afferra un biplano a mani nude: una distorsione progressiva della percezione della mole della bestia, direttamente proporzionale alla portata emotiva del suo agire. Due remake omonimi, entrambi riusciti (quello “catastrofico” di John Guillermin del 1976 e quello “sentimentale” di Peter Jackson del 2005), lavorarono con maestria sull’aggiornamento “grafico” delle istanze originarie (il primo grazie al genio di Carlo Rambaldi e dei suoi modelli “animatronici” in scala 1:1, il secondo con le pi moderne tecnologie digitali coeve): ma rimanendo in uno stato evidente di subalternit rispetto all’inarrivabile originale.
2 marzo 2023 (modifica il 2 marzo 2023 | 07:15)
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