un kolossal di quasi 3 ore che ebbe un enorme successo di pubblico- Corriere.it

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di Filippo Mazzarella

Il regista John Sturges alle prese con l’adattamento del romanzo omonimo e autobiografico del pilota australiano John Brickhill

Il 20 giugno 1963 (il film uscirà poi nelle sale americane due settimane dopo e nelle nostre a fine agosto di quell’anno) si tenne a Londra l’anteprima mondiale di “La grande fuga/The Great Escape”, kolossal da quasi tre ore (ma dal budget limitato: “solo” quattro milioni di dollari dell’epoca) del regista John Sturges che a tre anni da “I magnifici sette/The Magnificent Seven” espanse, riprese e rilanciò il meccanismo narrativo di quel grande successo (l’unione di individui disperati in nome di un obiettivo comune) affidando agli sceneggiatori James Clavell e W.R. Burnett l’adattamento del romanzo omonimo – e autobiografico – del pilota australiano John Brickhill. Storia vera.

Nel 1943, dopo l’abbattimento del suo aereo da parte dei tedeschi, Brickhill venne infatti condotto in uno stalag dove poté testimoniare in prima persona il tentativo di evasione di oltre duecento reclusi che organizzarono la loro fuga scavando contemporaneamente tre tunnel sotterranei. Riuscirono a evadere solo settantacinque persone, di cui due terzi vennero catturati e trucidati (alla faccia della Convenzione di Ginevra). Nella finzione, anno 1942, il colonnello nazista von Luger (Hannes Messemer, che già Rossellini aveva utilizzato analogamente in due film consecutivi, “Il generale Della Rovere”, 1959, ed “Era notte a Roma”, 1960) conduce un gruppo di prigionieri inglesi nel campo Luft III, già adibito alla reclusione di parecchi altri detenuti particolarmente “esuberanti”, ove si premura che gli ospiti vengano trattati con una maggiore umanità per disincentivarne la reiterazione di altri possibili tentativi di fuga. Tra di essi vi è però il comandante di squadriglia Roger Bartlett detto X1 (Richard Attenborough), che con l’ufficiale Ramsey (James Donald) sta già architettando un rocambolesco e massiccio tentativo di evasione, con l’obiettivo di distrarre dal fronte ingenti truppe nemiche, basato sulla realizzazione clandestina di tre tunnel sotterranei.

Il piano viene minuziosamente organizzato grazie all’individuazione di molte altre figure-chiave, tra cui i tenenti di squadriglia Velinski (Charles Bronson), Hendley (James Garner), Blythe (Donald Pleasence) e il sottotenente Sedgwick (James Coburn); e il progetto prende rapidamente forma. Durante i festeggiamenti organizzati dai detenuti americani per celebrare il giorno dell’indipendenza, una delle tre gallerie di fuga già realizzate viene però scoperta dalle guardie naziste, proprio quando il capitano americano Virgil Hilts (Steve McQueen), che meditava di tentare l’evasione in solitaria, decide di mettersi al servizio dell’organizzazione dopo che i tedeschi hanno trucidato il recluso scozzese suo amico, Archibald Ives (Angus Lennie). Qualche tempo dopo, tutto sarà pronto per la massiccia evasione: ma solo una piccola parte degli oltre duecentocinquanta partecipanti riuscirà ad allontanarsi dallo stalag, braccata subito dopo dalle forze congiunte di Wehrmacht e Gestapo che daranno inizio a una gigantesca caccia all’uomo.

Per stessa ammissione del regista Sturges, all’epoca già un veterano con oltre venti film alle spalle (tra i quali, oltre al già citato “I magnifici sette”, i bellissimi ed epici western “L’assedio delle sette frecce/Escape from Fort Bravo”, 1953, e “Sfida all’O.K. Corral/Gunfight at the O.K. Corral”, 1957, nonché l’adattamento da Hemingway “Il vecchio e il mare/The Old Man and the Sea”, 1959), le matrici di “La grande fuga” erano alte. Le sue ambizioni erano infatti quelle di incastonare in un contesto derivante tanto da “La grande illusione/La Grande illusion” (1937) di Jean Renoir quanto da “Stalag 17” (1953) di Billy Wilder un’avventura mozzafiato tutta al maschile ossequiando nella costruzione della suspense (enfatizzata dal montaggio senza cedimenti di Ferris Webster, che ricevette una nomination all’Oscar: l’unica tributata, un po’ ingenerosamente, al film) la più nobile tripartizione del racconto cinematografico classico: dalla preparazione ricca di dettagli thriller legati a ogni possibile impasse o errore al climax centrale, notturno e martellante dell’azione, fino al terzo atto, più scopertamente spettacolare in misura hollywoodiana, in cui tra tocchi ironici (già ampiamente disseminati nella prima parte) ed esplosioni di ritmo si compie il destino dei singoli personaggi nel frattempo divenuti ancor più centrali ed emblematici.

Tra di essi (anche se non va dimenticato l’apporto dell’intero e straordinario cast, benissimo servito da una sceneggiatura in grado di definire le psicologie dei protagonisti con una scrittura di classe superiore) svetta ovviamente il mai abbastanza compianto Steve McQueen –qui al terzo film con Sturges e all’undicesimo di una carriera arrembante che lo avrebbe visto protagonista di altri diciannove prima della sua prematura scomparsa nel 1980-, in un saggio di “self-consciousness” divistica e iconica tutto da studiare, soprattutto nelle sequenze che lo vedono impegnato in motocicletta (una delle sue grandi passioni) e più precisamente in sella a una maestosa Triumph TR6 Trophy (opportunamente camuffata da BMW teutonica…). Fu un successo di pubblico straordinario, sebbene tiepidamente accolto dalla critica; e per una volta non occorre stracciarsi le vesti in nome di chissà quale ingiustizia. Anche se, rivisto oggi, resta un ottimo esempio di un cinema che non avrebbe più alcun senso fare, ma tuttora in grado, nei suoi stranamente frequenti passaggi televisivi, di catturare l’attenzione del pubblico alla stregua dei grandi classici.

20 giugno 2023 (modifica il 20 giugno 2023 | 07:17)

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