Sono passati vent’anni, Federico Aldrovandi ne aveva 18 all’alba del 25 settembre 2005 quando i soccorritori di un’ ambulanza lo trovarono sdraiato in via Ippodromo, a Ferrara, immobile, con i polsi ammanettati dietro la schiena. Il corpo martoriato, le braccia spalancate. Quattro agenti di polizia erano ancora inginocchiati per tenerlo fermo, ma lui probabilmente era già morto. Il suo corpo rimane sull’asfalto per ore, senza un lenzuolo, mentre la famiglia non sa ancora nulla. La prima versione ufficiale parlava di malore causato da alcol e droghe. Ci vorranno anni e una lunga e difficile battaglia giudiziaria della sua famiglia per la verità: nel 2009 quattro poliziotti furono condannati a tre anni e sei mesi per omicidio colposo e venne riconosciuto l’eccesso colposo nell’uso delle armi. 

Nelle motivazioni della sentenza, il giudice Francesco Maria Caruso, scrisse così: “La sproporzione tra la presumibile condotta della vittima e quella degli imputati colora in modo negativo il fatto. Ma anche se il ragazzo fosse stato effettivamente molto agitato, la mancanza di senso della funzione sociale della polizia, l’inaffidabilità degli imputati, la loro oggettiva ‘pericolosità’ per la manifesta inadeguatezza nell’autodisciplinarsi nell’esercizio delle delicatissime funzioni e nell’autocontrollo nell’uso dello straordinario potere di esercizio autorizzato della forza, giocano nel senso di attribuire al fatto un’obbiettiva elevata gravità”. Corte d’Appello e Cassazione confermarono la sentenza. Nel luglio 2012 arrivarono anche le scuse del capo della polizia Antonio Manganelli, ma l’indulto ridusse la pena a sei mesi. Nel 2014 gli agenti rientrarono in servizio, con incarichi amministrativi. 

La ricostruzione della vicenda

Vent’anni dopo, la morte di ‘Aldro’ continua a rappresentare una ferita aperta.  Federico era un giovane studente: frequentava l’Itis elettronica, giocava a calcio, suonava il clarinetto, faceva karate. E tifava Spal. La sera del 24 settembre era uscito con gli amici per vedere un concerto reggae a Bologna. Al ritorno, verso le 5 del mattino, si era fatto lasciare al parcheggio delle scuole elementari vicino casa, per fare una passeggiata prima di rientrare. Tra le 5 e le 5,23 Federico fece nove telefonate ai suoi amici, ma nessuno rispose. Alle 5,48 una residente chiamò i carabinieri segnalando una persona che urlava. Il centralinista, passando la comunicazione alla polizia, disse che c’era qualcuno che stava sbattendo la testa contro i pali, una versione poi smentita dalla stessa testimone.   

Sul posto arrivarono due volanti, in una c’erano gli agenti Enzo Pontani e Luca Pollastri, nell’altra Monica Segatto e Paolo Forlani. Alle 6,04 i poliziotti chiamarono un’ambulanza. I paramedici trovarono Federico sdraiato sulla strada, immobile, con i polsi ammanettati dietro la schiena. Probabilmente era già morto.  L’allora ministro Carlo Giovanardi, in Parlamento, definisce Federico un “eroinomane”. Anni dopo, rincarando la dose, sempre Giovanardi sostiene che nella foto col volto tumefatto di Federico, quello che si vede non è sangue, ma un cuscino. E la famiglia di ‘Aldro’ lo denuncia. La prima perizia accertò 54 lesioni ed ecchimosi. Accanto al corpo furono trovati due manganelli spezzati a metà. Le successive perizie stabilirono che la morte era avvenuta per arresto cardiaco dovuto a compressione toracica e ai colpi subiti. La svolta arrivò grazie al blog di denuncia aperto dalla madre Patrizia Moretti nel 2006. E soprattutto grazie alla diffusione da parte della famiglia della foto simbolo di questa vicenda: Federico massacrato, con i segni dei manganelli sul volto e la macchia di sangue sul lenzuolo bianco. 

Una testimone Anna MarieTsangue, raccontò di aver visto “quattro di loro su di lui che lo picchiavano”. Nel 2009 i quattro poliziotti furono condannati a tre anni e sei mesi per omicidio colposo e venne riconosciuto l’eccessocolposo nell’uso delle armi. Corte d’Appello e Cassazione confermarono la sentenza. Altri tre agenti di polizia vennero condannati nel processo Aldrovandi bis, quello per favoreggiamento e omissione d’atti d’ufficio. In questi vent’anni Federico non è mai stato dimenticato. I tifosi della Spal, ma non solo, sventolano una bandiera con il suo volto negli stadi e nelle manifestazioni studentesche il grido ‘Aldro vive’ è diventato una richiesta di giustizia contro l’abuso di potere. 

Gli amici organizzano eventi nel giorno del suo compleanno e tornei in sua memoria. A Milano gli è stato dedicato un giardino pubblico con una targa essenziale: “Ragazzo1987-2005”. Alla sua storia è stato dedicato il documentario ‘È stato morto un ragazzo’ di Filippo Vendemmiati. E la sua città, nel ventennale della morte, ha deciso di ricordarlo con una serie di iniziative aperte al pubblico e gratuite: un incontro e a seguire la proiezione del docufilm e l’intitolazione del giardino dell’Ippodromo alla memoria di’Aldro’.

Saresti qui Federico, questo ci disse il difficile percorso giudiziario che portò alla condanna di chi ti uccise per l’appunto senza una ragione”, ha scritto il padre Lino lo scorso 17 luglio, giorno del compleanno del figlio.

La mamma di Federico: “Le cose sono peggiorate”

“Le persone che hanno deciso di intervenire sono state fondamentali a partire dalla stampa che, dopo le difficoltà iniziali, ha dato voce a Federico e ha contribuito a portare giustizia”” ha detto Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, nel corso dell’incontro a Ferrara, promosso dall’Associazione stampa locale con Aser, Fnsi e Ordine giornalisti per i 20 anni dall’omicidio. “Ma nonostante tutto questo grandissimo impegno, lo studio, e il lavoro di queste persone che hanno fatto tanto per Federico e la giustizia, la sua riflessione sul presente e futuro – non vedo purtroppo un cambiamento, le cose stanno anzi peggiorando: ci sono leggi più restrittive, nulla che possa prevenire, se non l’informazione, ma non vedo qualcosa che lo Stato possa avere fatto per impedire che accadano tragedie come questa“, ha aggiunto. “Vent’anni da quello che non sarebbe dovuto accadere – ha ricordato il papà di Federico – Grazie a chi fece il proprio dovere”.

Poi un pensiero dedicato a Federico attraverso i social: “Un po’ di quelle cose ‘non dette’ a te in vita le ho scritte dopo, e questo te lo confesso non mi darà mai pace per il rimorso di non avertele dette prima”, scrive  Lino Aldrovandi “quella mattina non ero lì con te Federico ed ogni genitore è chiaro che desidererebbe essere lì con il proprio figlio nel momento in cui lui ne avesse bisogno, per proteggerlo sempre e comunque da ogni tipo di male”. 

E prosegue: “Imparammo poi io, tua madre e tuo fratello, che non eri morto di morte naturale, o per autolesionismo, o per un incidente o chissà per cosa d’altro, ma eri stato ucciso ‘senza un ragione’ da quattro persone in divisa, tre uomini e una donna – sottolinea il padre di Federico -. Lo imparammo a piccole dosi, a iniziare dal riconoscimento che tuo zio Franco, mio fratello, si sobbarcò di fare”, “mi disse: ‘Lino, Federico è irriconoscibile è pieno di ferite, sembra che l’abbia investito un treno’. E poi quel giovedì 29 settembre 2005 a rivederti ricomposto in quella cassa e con mia sorpresa ad accorgermi che la tua fronte aveva una rientranza di alcuni centimetri di forma cilindrica quando alcuni giorni prima le informazioni ufficiali, in pratica il mattinale della questura sui giornali, parlavano di malore e che tutto si era dispiegato al cospetto di cittadini residenti la cui attenzione era stata richiamata dalle urla del giovane, dei sanitari del ‘118’ e dei Carabinieri, rimarcando nello stesso, al solo scopo di impedire al giovane di continuare a farsi del male”.

Ilaria Cucchi: “Federico simbolo di battaglia di civiltà”

“Oggi, nel 2005, un ragazzo di diciotto anni veniva massacrato all’alba da quattro agenti. In quel momento, Federico, uno studente dell’Itis a cui piaceva giocare a calcio e suonare il clarinetto, un ragazzo tra tanti, diventava un simbolo, una battaglia di civiltà“. A scriverlo sui suoi canali social è la senatrice Ilaria Cucchi. “Sono passati vent’anni – prosegue -. In tutto questo tempo, Aldro non ci ha mai davvero lasciato perché ce lo siamo portati sempre con noi. In ogni presidio per i diritti, Aldro era lì, presente. Aldro È presente. Da vent’anni, per i prossimi vent’anni. Ancora, e ancora. Aldro vive”

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