Oltre la metà delle donne vittime di violenza a distanza di anni presenta un disturbo da stress post traumatico, un quarto ha sintomi di depressione, un terzo è ad alto rischio di subire di nuovo violenza“. E’ quanto emerge dai dati raccolti grazie alle prime 100 donne che hanno accettato di donare un campione di sangue per il progetto di ricerca EpiWe, Epigenetica per le donne, coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss) e finanziato dal ministero della Salute per indagare se, quanto e per quanto tempo la violenza influenzi l’attività dei geni e comprometta la salute psico-fisica delle donne. 

Alla ricerca delle “cicatrici” anche nei minori che hanno assistito a violenza

Adesso la ricerca delle ‘cicatrici’ lasciate dalla violenza nel Dna verrà allargata: grazie a una collaborazione con la regione Puglia il progetto è stato appena  esteso anche ai minori che hanno assistito a violenza, un’esperienza che anche in questo caso porta, secondo i primi risultati, a profonde conseguenze psicologiche.    

Nell’ambito dell’iniziativa di studio, spiega l’Iss, sono state raccolte informazioni su 76 vittime di violenza, mentre il resto del campione è stato utilizzato come controllo, applicando EpiWe, un questionario elettronico innovativo elaborato dall’Istituto in  italiano e in altre 4 lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco) per favorirne la diffusione tra le donne immigrate e i mediatori  linguistici. 

I questionari verranno poi integrati con analisi sui campioni per cercare le ‘cicatrici’ epigenetiche sul Dna, impronte molecolari che non cambiano la struttura dei geni, ma ne modificano la funzionalità. Al momento EpiWe ha coinvolto le regioni Lazio,  Lombardia, Campania, Puglia e Liguria, in cui le donne possono ancora  partecipare e aiutare lo studio donando un campione.   

Oltre la metà delle vittime presenta disturbi post-traumatici gravi 

Dai primi dati, emerge nel dettaglio che oltre la metà delle vittime presenta disturbi post-traumatici gravi: il 27% delle donne con  diagnosi di Ptsd (disturbo da stress post traumatico) e 28,4% con Ptsd complesso (C-Ptsd). Il 23% delle vittime presenta sintomatologia  depressiva (episodio depressivo maggiore, probabile o possibile); il 32% è ad alto rischio di subire nuovamente violenza. Più della metà  delle donne prese in esame, ha un livello di istruzione pari o  superiore al diploma di maturità e il 34% ha un’occupazione stabile, l’82% è di cittadinanza italiana. L’aggressore nel 97% dei casi è un  uomo, nel 71% è il coniuge o partner. Nel 90% dei casi la violenza  (sessuale, fisica, psicologica ed economica) è ripetuta nel tempo. 

Da EpiWe a EpiChild

“La violenza domestica lascia tracce epigenetiche che modificano l’espressione dei geni, cioè la loro attività, senza  alterare la sequenza del Dna – spiega Simona Gaudi, responsabile del  progetto per l’Iss – Studiare queste modificazioni potrebbe  permetterci di predire gli effetti a lungo termine della violenza e  sviluppare interventi preventivi personalizzati prima che insorgano patologie croniche”. Il progetto EpiWe, continua l’esperta, “ha  portato all’elaborazione di un secondo strumento digitale innovativo,  EpiChild, pensato per i bambini e adolescenti: è stato somministrato  per ora a 26 minori di 7-17 anni (fra cui 8 orfani speciali, con madre deceduta e padre deceduto o in condizioni di detenzione) che hanno  assistito alla violenza in famiglia, arruolati nel territorio pugliese in seguito a una collaborazione con la Regione Puglia e nell’ambito  dello studio Esmiva, Esiti di Salute nei Minori esposti a Violenza Assistita”.  

Gaudi: “Serve intervento multidisciplinare”

Secondo i primi risultati, spiega l’esperta, quasi l’80% dei minori ha vissuto come evento traumatico l’aver assistito a violenze fisiche in  famiglia, e sono stati identificati diversi casi di Ptsd complesso e  depressione elevata. Il 42,3% del campione ha genitori separati o  divorziati, e nel 92,3% dei casi l’aggressore è il padre. “I risultati – conclude Gaudi – confermano l’urgenza di: screening sistematici nelle strutture sanitarie e nei servizi sociali; interventi multidisciplinari integrati tra sanità, scuola e servizi sociali;  protocolli di prevenzione personalizzati basati su evidenze  scientifiche; monitoraggio longitudinale, ossia nel tempo) per  valutare l’evoluzione dei sintomi. Lo studio proseguirà con follow-up  programmati per monitorare l’evoluzione della sintomatologia della  violenza subita, e costruire una base dati per future ricerche sul  trauma transgenerazionale”.

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