Abituato com’è, e come ha abituato chi lo osserva da lontano, a prendere decisioni di pancia, a fidarsi dell’istinto e del proprio carattere “umorale” (da autentico immobiliarista e affarista), il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ieri sera ha per l’ennesima volta stupito il mondo: dopo aver tenuto col fiato sospeso le economie del pianeta, e aver affossato le borse europee e asiatiche per due giorni di fila, a causa della sua dichiarazione di “guerra commerciale” ai Paesi emergenti, all’Unione europea e soprattutto alla Cina, e dopo le ritorsioni attivate o solo annunciate da alcuni partner, il capo della Casa Bianca ha deciso di sospendere per tre mesi (90 giorni) le tariffe maggiorate per i 75 Paesi che non li hanno imposti a loro volta all’America. Con una vistosa eccezione: Pechino, a cui ha imposto un ulteriore innalzamento del 125% perché resta il principale nemico dell’economia a stelle e strisce.
Ora, dalle parti di Pennsylvania Avenue, tutti plaudono alla grande capacità strategica del presidente di mettere gli avversari in un angolo, costringerli a trattare, se non addirittura calarsi le braghe (“Fanno la fila per venire a baciarmi il culo”, ha elegantemente rivelato). In realtà, a ben vedere, la mossa del tycoon andrebbe letta più correttamente come un cambio di rotta spinto dalla necessità e dalla paura di una crisi prolungata nel tempo, che potesse alla fine avere ripercussioni in primis sull’economia Usa. “La gente era un po’ spaventata” ha ammesso ieri lo stesso Trump. E il presidente ha tenuto a chiarire che la decisione è stata presa dopo ore di riflessione e di confronti ma senza “avvocati” o altri esperti.
Ma a chi si deve dire grazie per questa giravolta? Soprattutto al segretario al Tesoro Scott Bessent e a quello al Commercio, Howard Lutnick. Sono loro, infatti, da bravi ed esperti ex finanzieri, gli artefici dell’opera di convincimento portata avanti per due giorni nei confronti di “Potus”. Infatti, come ha rivelato lo stesso Lutnick, ieri lui e il collega Bessent hanno letteralmente assistito il presidente nella stesura del lungo post su Truth in cui Trump annunciava la sua decisione di sospendere i dazi e di aumentarli alla Cina. Era presente, intorno al tavolo, anche Kevin Hassett, direttore del Consiglio economico nazionale.
Ma è stato il segretario al Tesoro Bessent, in particolare, a lavorarlo ai fianchi, a blandirlo e a provare a convincerlo passo passo che, a lungo andare, perdite prolungate sulle piazze finanziarie del mondo si sarebbe tradotte in un tracollo troppo grande per l’economia americana, col rischio concreto di recessione. In ogni caso, l’azione persuasiva sul presidente ha altri protagonisti: alcuni sostengono che la vera svolta sia arrivata quando Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase, ha detto su Fox News, il canale più in sintonia col Trump-pensiero, che l’imposizione prolungata dei dazi avrebbe provocato molto probabilmente una recessione.
A questi nomi se ne dovrebbero aggiungere molti altri, vari senatori repubblicani di South Dakota, South Carolina, Texas (Ted Cruz, tra i più esposti a ventilare una “marcia indietro”), ma anche Alabama, Louisiana, Arkansas, Oklahoma, che durante un programma andato in onda martedì sera su Fox (Trump praticamente guarda solo quel canale) lo avrebbero contattato a più riprese per spingerlo a una riflessione. L’indomani, quindi mercoledì, il presidente ha avuto una conversazione telefonica con la presidente della Confederazione elvetica Karin Keller-Sutter, Paese colpito soprattutto per beni di lusso (Rolex) e cioccolata. Anche la presidente Sutter avrebbe avuto un ruolo cruciale nel far maturare la svolta nel “cuore” del presidente Usa, ricordandogli che nel 2024 la Svizzera ha tolto le tariffe maggiorate sulle importazioni dell’industria Usa.
Dopo l’annuncio, alle 13:18 ora di Washington, i mercati hanno subito reagito euforicamente con un rimbalzo, Wall Street su tutti: il Dow Jones ha guadagnato il 6,6%, lo S&P il 7,3%, il Nasdaq il 9%. Il petrolio è avanzato del 3,42%. Alla fine, il Dow Jones chiude in rialzo del 7,87%, il Nasdaq avanza del 12,16% (miglior seduta dalla fine della Seconda guerra mondiale) mentre lo S&P 500 sale del 9,51% in quella che è stata la sua seduta migliore dal 2008. Al di là dei protagonisti e di coloro a cui va il merito del cambio di passo di Trump, va ricordato che anche l’andamento dei titoli di Stato americani ha avuto il suo peso: aumentando il rendimento di quelli a 10 anni, il segnale percepito – dentro e fuori gli States – era che la stabilità economica del Paese stava dando segnali poco incoraggianti, poiché aumentava il rischio che potessero essere rifinanziati sul mercato. E The Donald ha capito che doveva fermarsi.