L’Europa rischia di perdere la partita più importante del secolo: quella delle tecnologie verdi. È quanto emerge dall’analisi dell’Osservatorio Europeo per la Neutralità Climatica (ECNO), che nel suo ultimo rapporto fotografa una realtà preoccupante per il Vecchio Continente, sempre più in affanno nella competizione globale per la leadership della transizione ecologica.
Il dato più allarmante riguarda il calo degli investimenti nelle tecnologie pulite, quello che i ricercatori dell’ECNO – una partnership che riunisce alcune tra le principali organizzazioni di ricerca europee su clima, governance, economia e finanza – definiscono il climate investment gap, ovvero lo scarto tra gli investimenti necessari a centrare gli obiettivi di neutralità climatica e quelli effettivamente realizzati.
Lo studio dice che nel 2023 sono stati spesi 498 miliardi per i settori dell’energia, degli edifici, dei trasporti e della produzione di tecnologie pulite, con un aumento di appena l’1,5% rispetto al 2022. Per raggiungere i suoi obiettivi di politica climatica e industriale per il 2030 l’Ue dovrebbe investirne di qui al 2030 ben 842 l’anno, e dunque il “divario di investimenti climatici” è di 344 miliardi. Allo stesso tempo, i sussidi ai combustibili fossili sono aumentati del 19% nel 2023 rispetto ai livelli del 2022, raggiungendo i 242 miliardi di euro. Una scelta che rischia di rivelarsi miope, in un momento in cui la Cina e altri paesi accelerano nella corsa alle tecnologie pulite.
È proprio il dragone asiatico a dominare la scena: Pechino controlla l’82% della produzione mondiale di moduli solari, il 65% delle turbine eoliche e l’83% delle celle per batterie. Un monopolio de facto che sta mettendo in ginocchio la bilancia commerciale europea, in rosso per solare e batterie, mentre si assottiglia anche il tradizionale vantaggio nel settore eolico.
“L’Europa sta reagendo, ma con troppa timidezza”, spiega Ciarán Humphreys, esperto di tecnologie pulite dell’ECNO. “Il Clean Industrial Deal e il Fondo europeo per la competitività, previsti nella proposta di bilancio della Commissione, sono passi nella giusta direzione. Ma con soli 26 miliardi di euro destinati alle tecnologie pulite ad alta intensità di capitale, il Fondo resta una risposta inadeguata alla potenza di fuoco dispiegata da Washington e Pechino”.
A complicare il quadro c’è l’emergenza energetica: nell’ultimo quinquennio le tariffe elettriche industriali sono cresciute del 7,5% all’anno, un salasso che non ha eguali tra i competitor globali. La causa principale resta la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, con l’addio al gas russo che ha costretto l’Europa a rifornirsi sul mercato più oneroso del GNL.
Ma c’è di più: l’Unione resta in ostaggio delle forniture di materie prime essenziali, altro settore dove la Cina detta legge. Un circolo vizioso che vede il deficit commerciale europeo allargarsi per materiali strategici come litio, platino e silicio, indispensabili per lo sviluppo delle tecnologie verdi.
“Non possiamo vincere questa sfida in solitaria”, avverte Mia Moisio del NewClimate Institute. “Servono partnership commerciali che creino vantaggi reciproci e accompagnino anche i nostri partner verso un’economia decarbonizzata”.
Il rapporto evidenzia anche un rischio sociale: con l’inflazione che erode il potere d’acquisto e le bollette che pesano sui bilanci familiari, il consenso per la transizione verde potrebbe incrinarsi se non verranno garantiti sostegni adeguati alle fasce più vulnerabili.
“Il rapporto Draghi parla chiaro: il caro energia è il principale freno alla competitività europea”, conclude Eike Velten, coordinatore dello studio. “Puntare sulle rinnovabili non è solo una scelta ambientale, ma l’unica via per riconquistare sovranità energetica e industriale”.