Ex fidanzata di Fabio Savi, mente e braccio armato della banda della Uno Bianca, Eva Mikula è stata per decenni etichettata come “la donna del killer” e “la complice”. Lei, invece, rivendica un altro ruolo: quello di vittima. E lo fa anche davanti a Francesca Fagnani, ospite della prima puntata di Belve Crime.
“La banda fu arrestata grazie a me”, afferma Mikula. Ma la conduttrice ribatte: “Ha parlato solo dopo l’arresto”. La donna racconta di essere stata “insultata per trent’anni” e minacciata.
Quando la giornalista le chiede a chi dovrebbe delle scuse, la risposta sorprende: “Le attendo. Dai familiari delle vittime”.
“I familiari, in generale, non devono chiedere scusa a nessuno”, replica Fagnani.
Eva Mikula ha vissuto per due anni accanto a uno dei più spietati criminali della storia italiana. Fabio Savi, insieme ai fratelli Roberto e Alberto e ad altri agenti della Polizia di Stato, seminò morte e terrore tra l’Emilia-Romagna e le Marche tra il 1987 e il 1994.
Le vittime Uno bianca: “Scusarci con Mikula? Non scherziamo”
“Noi dobbiamo scusarci? Ma non scherziamo!”. E’ la reazione di Alberto Capolungo, presidente dell’Associazione familiari Vittime della Uno Bianca, alle dichiarazioni fatte alla trasmissione ‘Belve Crime’ da Eva Mikula, per due anni fidanzata di Fabio Savi, uno dei tre fratelli componenti della banda. Nell’intervista a Francesca Fagnani, Mikula ha detto di aspettarsi delle scuse dai parenti delle vittime, che a suo dire l’avrebbero insultata per 30 anni, oltre a non averla accettata nell’associazione. “Non siamo certo noi a doverci scusare né mai lo faremo, tra l’altro non l’abbiamo mai offesa e non le abbiamo augurato alcun male – ha spiegato Capolungo – lei ha fatto delle scelte di vita che forse le saranno costate, che non le saranno piaciute in seguito. Possiamo concederle che era molto giovane e non sapeva a cosa andava incontro. Se poi ha dato un contributo all’epoca dei processi, in qualche maniera le sarà stato riconosciuto dai magistrati. Tant’è vero che non ha fatto neanche un giorno di galera. Ma da qui a diventare una vittima che deve entrare nell’associazione, ce ne passa”. Quanto alla istigazione al suicidio, cui avrebbe fatto riferimento Mikula nell’intervista: “Niente di tutto questo – ha detto Capolungo – noi non colpevolizziamo e non le auguriamo la morte, il suicidio o altro, semplicemente non abbiamo a che fare con lei. Però lei Fabio Savi se l’è scelto, noi abbiamo subìto le azioni dei banditi”.
La banda della Uno Bianca: 24 morti e 114 feriti
La banda della Uno Bianca, così chiamata perché utilizzava una Fiat Uno bianca durante gli assalti, è stata una delle organizzazioni criminali più feroci del secondo dopoguerra. Dal 1987 al 1994, compì oltre 100 azioni armate: rapine a mano armata, agguati a militari, assalti a caselli e furgoni portavalori, sparatorie nei campi nomadi e esecuzioni. Il bilancio: 24 persone uccise e 114 ferite.
A guidarla erano tre fratelli: Roberto, agente in servizio alla Mobile di Bologna, Fabio, meccanico ma anche lui ex poliziotto, e Alberto, il più giovane. Al loro fianco, altri membri delle forze dell’ordine: Marino Occhipinti, Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli.
Eva Mikula nel 1992 è una giovane arrivata in Italia dalla Romania per lavorare come modella e hostess. Conosce Fabio Savi in un locale di Rimini. Si fidanza con lui. Non sa, o almeno dice di non sapere, chi sia veramente. Quell’uomo le compra abiti, le regala gioielli, le offre soldi.
Il 24 novembre 1994, la polizia arresta Fabio Savi in un autogrill sull’autostrada per l’Austria. Con lui, c’è Eva. Pochi giorni prima era stato fermato anche Roberto a Bologna. L’indagine, condotta dai magistrati Daniele Paci e Paolo Giovagnoli e dagli investigatori Luciano Baglioni e Pietro Costanza, aveva già individuato l’identità dei killer grazie a mesi di lavoro minuzioso. Un appostamento a Santa Giustina, nei pressi di Rimini, fu la chiave: lì venne individuata un’auto sospetta, con la targa illeggibile, guidata da Fabio. Da quel momento, fu questione di giorni.
Eva viene trattenuta per giorni, interrogata, messa sotto pressione. Collabora. Fornisce nomi, movimenti, ricostruzioni. Le sue parole, per stessa ammissione degli inquirenti, sono decisive per completare il quadro. Nonostante ciò, l’opinione pubblica resta divisa: vittima o complice?
Nel 1996, arrivano le sentenze: ergastolo per Roberto, Fabio, Alberto Savi e per Marino Occhipinti. 28 anni per Pietro Gugliotta, ridotti poi a 18. 3 anni e 8 mesi per Luca Vallicelli, per favoreggiamento.
Il processo rivela una delle verità più inquietanti: i killer erano uomini dello Stato. Agenti in servizio, gli stessi che avrebbero dovuto proteggere i cittadini. Lo Stato, nel frattempo, riconosce il danno: vengono erogati 19 miliardi di lire alle famiglie delle vittime.
Eva Mikula, invece, viene assolta dalle accuse più gravi. Per lei, soltanto una pena sospesa per false dichiarazioni e porto d’armi. Ma nessun programma di protezione, nessun risarcimento.
Nel 2021 Eva pubblica un libro, “Vuoto a perdere”, scritto con il giornalista Marco Gregoretti. Un’autobiografia cruda, scomoda, rabbiosa: “La mia pena è infinita, a vita. Vivo nel baratro del mio passato, nascondendomi nell’oblio per affrontare e sconfiggere ogni giorno il pregiudizio”. Scelse di pubblicarlo e dedicarlo a tutte le persone uccise”.
Qualche anno fa, dal carcere di Bollate, Savi scrisse una lettera al Resto del Carlino, rivolgendosi alla ex compagna: “Ti piacevano i bei vestiti, i gioielli, i migliori profumi, i bei ristoranti e quei maledetti soldi che portavo a casa. Sono piuttosto stanco di essere un mezzo di notorietà e guadagno. E la protezione dovrei chiederla io da te e non tu da me”.