I rapporti tra il presidente della Fed Jerome Powell e Donald Trump sono ai minimi storici. Da una parte il Presidente degli Stati Uniti vorrebbe una riduzione dei tassi di interessi che sia da traino agli investimenti interni dei cittadini americani e del tessuto americano. Dall’altra, il Presidente della Federal Reserve lo accusa di aver causato lui l’incertezza attuale con la strategia messa in atto sui dazi. In poche parole significa che i banchieri non possono ancora ipotizzare quali risultati, dal punto di vista dell’inflazione, l’entrata in vigore dei dazi, la cui consistenza ancora non è chiara, potrebbero avere. E poi, a preoccupare i banchieri, è anche il “Big Beautiful Bill” che rischia di portare il debito pubblico su posizioni insostenibili.
Forse anche per questi motivi, dopo una giornata convulsa, a sera il presidente degli Stati Uniti sembra voler accelerare sui dazi. Ai giornalisti economici afferma: “Non intendo prorogare la data in cui entreranno in vigore i dazi, quella del 9 luglio”. Quasi per arrivare ad una visione di scenario economica completa che potrebbe stimolare la Fed a prendere nuove decisioni sui tassi comprendendo, finalmente, l’impatto delle tariffe doganali sull’economia americana.
L’edificio della Federal Reserve (Getty)
Senza il “Liberation day” il taglio dei tassi della Fed sarebbe già stato fatto
Non è il contrattacco dei banchieri centrali a Donald Trump, ma poco ci manca: con toni e sfumature diversi, i numeri uno di Fed e Bce al forum delle banche centrali di Sintra fanno muro, punto su punto, all’agitarsi del Presidente Usa che sembra voler scardinare l’ordine monetario globale. Con Jerome Powell che fa capire che avrebbe tagliato i tassi se non fosse stato per i dazi, agli attacchi di Trump risponde: “Siamo focalizzati al 100% sul mandato” della Fed, e attacca sul debito che è a livelli sostenibili ma su una traiettoria “insostenibile” da correggere prima piuttosto che poi, altro che ‘Big Beatiful Bill’ di Trump. E Christine Lagarde che vede nel 2025 l’anno del potenziale declino del dollaro e boccia l’abbraccio del tycoon alle stablecoin: si andrebbe “verso la privatizzazione della moneta”.

Donald Trump, Liberation Day (AFP)
L’attesa della Federal Reserve
Nell’immediato ci sono le prossime decisioni di politica monetaria delle due principali banche centrali al mondo. Per la Fed, che da mesi resiste alle bordate di Trump arrivato a chiamare “stupido” Powell perché non taglia i tassi e minacciare una sua rapida sostituzione. “In effetti – afferma Powell – ci siamo messi alla finestra vedendo le dimensioni dei dazi e tutte le stime di inflazione”, risponde candidamente alla domanda se, non ci fosse stato il ‘Liberation day’, di Trump la Fed avrebbe già tagliato. Ma “la cosa prudente da fare è aspettare di capire meglio gli effetti”. Con l’inflazione attesa in rialzo nei mesi estivi, sia pure con un mercato del lavoro in “graduale raffreddamento”, Powell sorvola sui toni roboanti di Trump e prende ancora tempo: “Non saprei indicare o escludere un mese” in cui la Federal Reserve inizierà a tagliare, risponde a chi gli chiede se un taglio al meeting di luglio sia escluso.

Bce – European central bank (gettyimages)
La Bce ha meno problemi della Fed
Per una volta lo scenario è più facile per la Bce, che in un anno ha già tagliato di quasi due punti pieni. Con l’inflazione di giugno esattamente all’obiettivo del 2%, Christine Lagarde può dire “non missione compiuta, ma obiettivo raggiunto”. Pur con un secondo e terzo trimestre con crescita attesa poco sopra lo zero dopo il +0,6%, la Bce potrebbe aspettare settembre o fine anno per il prossimo taglio: salvo che il negoziato sui dazi finisca con un disastro e imponga un’accelerazione. Ipotesi non assurda, se si considera che un nodo chiave nella trattativa con l’Europa è la regolamentazione europea di Big tech dove Trump ha minacciato di rompere col Canada.
Il problema dell’Europa è il “mini-dollaro”
C’è un altro punto di forte pressione sulla Bce: il super-euro, o meglio il mini-dollaro. Il cambio euro/dollaro tornato a 1,18, quando pochi mesi fa, prima di Trump, sui mercati si puntava sulla parità. Un ‘dazio’ a suo modo sulle imprese esportatrici perché rende i prodotti europei più costosi, e un fattore di ‘disinflazione’ perché abbassa i prezzi all’import. Fino a 1,20, dice il vice di Lagarde, Luis de Guindos, la situazione è gestibile, oltre è “molto più complicata”.
Gli fa eco il governatore lettone Martin Kazacs: con un cambio apprezzato del 10% e dazi al 10%, l’ipotesi di accordo con Trump, ci sono rischi per l’export. Lagarde non si sbilancia – il 2% dei tassi è ormai un livello neutrale – e prende tempo: “Nessun impegno” sui tassi futuri, si decide meeting dopo meeting sulla base dei dati.

Riccardo Cavaliere su Powell e tassi (Rainews24)
Il semestre nero del dollaro
Invece il ‘semestre nero’ del dollaro, quel crollo del 10% del dollar index a gennaio-giugno che è il peggiore dal 1973 in un sistema monetario dollaro-centrico messo in crisi da Trump, fa pensare che il 2025 “potrebbe essere” un anno decisivo, dice Lagarde: anche se sono cambiamenti che richiedono tempo e l’Europa deve prepararsi.
Come? Con le riforme, con l’unione dei risparmi e investimenti, e ponendosi come àncora di stabilità in un mondo in frammentazione. A partire dalla moneta: l’euro digitale contro la scommessa di Trump sulle stablecoin (quelle cryptovalute che, per essere più stabili, vengono ancorate o a una valuta o, ,per esempio, all’oro, ndr), bocciate però da Lagarde come una pericolosa “privatizzazione della moneta”.