
Nell’era FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google) eravamo abituati a un cocktail digitale a base di social, streaming e shopping compulsivo. Poi, all’improvviso, il “frutteto” tecnologico è cambiato: via le mele ammaccate dell’attenzione, dentro le MANGO (Microsoft, Apple, Nvidia, Google, Oracle/OpenAI), un nuovo raccolto che promette meno like e più intelligenza. Non è una moda esotica, ma il segnale che il baricentro dell’innovazione si è spostato dai nostri schermi al cuore pulsante dell’infrastruttura che fa girare il mondo. E mentre ci chiediamo se questo nuovo frutto sia davvero più nutriente, scopriamo che potrebbe ridisegnare non solo l’economia, ma anche ciò che significa lavorare, governare e, in fondo, pensare. Ne parliamo con Antonino Caffo, giornalista esperto di AI.
Quali sono le differenze più rilevanti tra l’era FAANG e l’attuale paradigma MANGO in termini di modelli di business e impatto sulla società?
La transizione dall’era FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google) al paradigma MANGO (Microsoft, Apple, Nvidia, Google, Oracle/OpenAI) segna un passaggio fondamentale dall’economia dell’attenzione all’economia dell’infrastruttura e dell’intelligenza. Durante il dominio delle FAANG, il modello di business prevalente si basava sulla monetizzazione del tempo degli utenti, principalmente attraverso la pubblicità mirata e l’intrattenimento; l’obiettivo era incollare le persone agli schermi per raccogliere dati comportamentali. L’impatto sociale era definito dalla connessione orizzontale tra individui, ma portava con sé le problematiche della polarizzazione sociale e della dipendenza digitale. Con l’ascesa dei colossi MANGO, il valore non risiede più solo nel “software che mangia il mondo”, ma nell’hardware che alimenta il pensiero sintetico (come le GPU di Nvidia) e nelle piattaforme cloud che ospitano l’intelligenza artificiale (Microsoft e Google). L’impatto sulla società diventa quindi meno visibile ma più radicale, poiché non si tratta più di come comunichiamo, ma di come lavoriamo, scopriamo nuovi farmaci o gestiamo le reti energetiche. La società passa dall’essere una rete di utenti connessi a un ecosistema di lavoratori aumentati, dove il divario non è più solo digitale (chi ha accesso a internet) ma cognitivo (chi ha accesso all’intelligenza computazionale).
In che modo il passaggio dal consumo digitale all’automazione cognitiva sta trasformando le aspettative di aziende, utenti e talenti del settore?
Questo passaggio sta riscrivendo il contratto implicito tra tecnologia ed essere umano, spostando l’asticella dalla comodità alla competenza. Per le aziende, l’aspettativa non è più la semplice digitalizzazione dei processi esistenti, ma una vera e propria rifondazione operativa in cui l’intelligenza artificiale agisce non come strumento, ma come agente autonomo capace di prendere decisioni e generare output complessi. Questo crea una pressione immensa per dimostrare un ritorno sull’investimento immediato, costringendo le organizzazioni a ripensare le proprie gerarchie: si passa da strutture piramidali basate sulla gestione delle persone a strutture più fluide basate sull’orchestrazione di algoritmi e supervisione umana. Dal lato degli utenti, l’era dell’automazione cognitiva ha eroso la pazienza verso le interfacce tradizionali. Non ci si accontenta più di cercare informazioni tra una serie di link blu; si pretende una sintesi, una risposta elaborata o la creazione immediata di un contenuto. L’utente non vuole più navigare, vuole ottenere risultati. Per i talenti del settore, questo cambiamento è epocale. La semplice capacità di scrivere codice o gestire campagne di marketing non è più sufficiente se non accompagnata dalla capacità di integrare questi compiti con l’AI. Il valore del lavoratore si sposta dall’esecuzione tecnica alla capacità di formulare le domande giuste e di curare l’output della macchina, trasformando ogni professionista in un editore e architetto di sistemi piuttosto che in un mero operatore.
Quanto pesa oggi, nel mercato del lavoro tech, la capacità di padroneggiare l’intelligenza artificiale rispetto alle competenze tradizionali come l’MBA?
Nel mercato attuale, la padronanza dell’intelligenza artificiale sta rapidamente diventando un “moltiplicatore di forza” che oscura il valore percepito di titoli tradizionali come l’MBA, specialmente se questi ultimi non sono ibridati con una forte componente tecnologica. Mentre l’MBA ha storicamente insegnato a gestire risorse umane, finanziarie e logistiche in un contesto statico o prevedibile, l’era dell’AI richiede una gestione dinamica dell’incertezza e una capacità di iterazione rapidissima che il curriculum classico di business fatica a trasmettere. Le aziende cercano profili che non solo capiscano la strategia, ma che sappiano prototipare soluzioni in tempo reale utilizzando modelli linguistici e strumenti di automazione, abbattendo i costi e i tempi di sviluppo in modi che la teoria manageriale classica non aveva previsto. Non si tratta di una completa obsolescenza delle competenze manageriali, ma di una loro profonda riconfigurazione. La capacità tecnica di utilizzare l’AI (prompt engineering, fine-tuning, integrazione API) deve fondersi con il pensiero critico e la visione strategica. Il peso specifico dell’AI literacy è oggi preponderante perché rappresenta la leva per l’efficienza operativa: un manager che sa usare l’AI può svolgere il lavoro di un intero dipartimento di analisti di dieci anni fa. Di conseguenza, il mercato premia chi possiede un portfolio di progetti AI applicati molto più di chi possiede certificazioni prestigiose ma prive di riscontro pratico nell’economia algoritmica.
Come sta cambiando la posizione degli Stati Uniti a livello geopolitico con l’ascesa dei colossi AI MANGO e quali implicazioni ha questo per la diplomazia e la sicurezza internazionale?
L’ascesa MANGO ha permesso agli Stati Uniti di riaffermare una forma di egemonia tecnologica che va ben oltre il potere culturale della Silicon Valley. Attraverso il controllo della filiera fisica (i chip di Nvidia e le fabbriche che gli USA stanno riportando in patria o presso alleati sicuri) e di quella logica (i modelli proprietari di OpenAI, Google e Microsoft), Washington ha effettivamente militarizzato la tecnologia commerciale. Questo ha creato una nuova dottrina diplomatica in cui l’accesso ai data center e ai semiconduttori più avanzati viene utilizzato come leva negoziale o arma sanzionatoria, come visto nelle restrizioni all’export verso la Cina. Le implicazioni per la sicurezza internazionale sono profonde e complesse. Stiamo assistendo alla nascita di una “sovranità computazionale”, dove le nazioni alleate degli USA vengono integrate in un blocco tecnologico unificato, mentre i rivali sono costretti a sviluppare ecosistemi autarchici, accelerando la frammentazione di internet (splinternet) e dei mercati globali. La sicurezza non dipende più solo dagli armamenti convenzionali, ma dalla capacità di proteggere i pesi dei modelli neurali e le infrastrutture cloud da spionaggio e sabotaggio. In questo scenario, i colossi MANGO agiscono quasi come attori statali parziali, con un’influenza diplomatica che in certi casi supera quella di nazioni sovrane di media grandezza.
Secondo lei, quali rischi e opportunità si profilano per la società e per l’innovazione, ora che il potere tecnologico sembra focalizzarsi sull’intelligenza piuttosto che sulla connessione?
L’opportunità di questa fase del capitalismo cognitivo risiede nella potenziale accelerazione della scoperta scientifica e nella risoluzione di problemi sistemici che la mente umana, da sola, non è in grado di affrontare. L’intelligenza artificiale applicata alla biologia, alla climatologia e alla scienza dei materiali promette di sbloccare progressi che potrebbero garantire un futuro di abbondanza energetica e longevità sanitaria. Se il focus si sposta dalla connessione (social media) all’intelligenza (problem solving), potremmo vedere un riallineamento degli incentivi economici verso la creazione di valore reale e tangibile, superando l’era effimera dei like e delle visualizzazioni per entrare in un’epoca di ingegneria profonda. D’altro canto, il rischio principale è una concentrazione di potere senza precedenti storici. Se l’intelligenza diventa una merce proprietaria gestita da pochissime entità private, si profila il pericolo di una disuguaglianza non più basata solo sul capitale finanziario, ma sul capitale cognitivo. Chi controlla i modelli più intelligenti avrà un vantaggio ricorsivo incolmabile, decidendo quali problemi meritano di essere risolti e a quale prezzo. Inoltre, delegare facoltà cognitive alle macchine comporta il rischio di un’atrofia delle competenze umane critiche e la creazione di “scatole nere” decisionali che governano la vita pubblica (dal credito alla giustizia) senza trasparenza, rendendo la società tecnologicamente avanzata ma politicamente fragile.