“La strage di via D’Amelio ha impresso un segno indelebile nella storia italiana. La morte di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta – Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina – voluta dalla mafia per piegare le istituzioni democratiche, a meno di due mesi dall’attentato di Capaci, intendeva proseguire, in modo eversivo, il disegno della intimidazione e della paura”. Lo dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
“La democrazia è stata più forte. Gli assassini e i loro mandanti sono stati sconfitti e condannati. In questo giorno di memoria, la commozione per le vite crudelmente spezzate e la vicinanza ai familiari delle vittime restano intense come trentatré anni or sono. Il senso di riconoscenza verso quei servitori dello Stato che, con dedizione e sacrificio hanno combattuto il cancro mafioso, difendendo libertà e legalità, consentendo alla società di reagire, è imperituro”, prosegue il capo dello Stato.
“Le vite di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone sono testimonianza e simbolo della dedizione dei magistrati alla causa della giustizia. Borsellino non si tirò indietro dal proprio lavoro dopo la strage di Capaci. Continuò ad andare avanti. Onorare la sua memoria vuol dire seguire la sua lezione di dignità e legalità e far sì che il suo messaggio raggiunga le generazioni più giovani”, conclude Mattarella.
Meloni: “L’Italia non dimentica Borsellino”
A 33 anni dalla strage di via D’Amelio ricordiamo Paolo Borsellino, un uomo che ha sacrificato la sua vita per la verità, per la giustizia , per l’Italia”. Lo scrive su X la premier Giorgia Meloni sottolineando come questo ricordo sarà portato avanti ogni giorno.
33 anni fa la strage
Quel 19 luglio di 33 anni fa era una domenica. Nel primo pomeriggio il giudice Paolo Borsellino si reca in via D’Amelio dove abitava la madre. Ad attendere il magistrato e i 5 uomini della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina, nascosti in una vecchia Fiat 126 rubata e parcheggiata nei pressi dell’abitazione, c’erano 50 chili di tritolo. Borsellino arriva scende dall’auto e, a distanza, viene azionato l’esplosivo.
Il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo Falcone, tocca a Paolo Borsellino, la seconda anima del pool, l’altro giudice siciliano che conosce il cuore spaccato della mafia, e il proprio destino.
Fiamme, fumo e macerie irrompono di nuovo dentro ai telegiornali. È la seconda morte annunciata. Due informative del Ros dei Carabinieri davano per imminente l’attentato. È lo stesso Borsellino che ne parla con gli uomini della sua scorta: “Sono turbato. Sono preoccupato per voi perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi”.
L’autobomba, parcheggiata davanti al numero 21, esplode alle 16:55, nel momento in cui Borsellino schiaccia il citofono per chiamare la madre. L’esplosione distrugge tutto quello che incontra in un raggio di 150 metri. I corpi di Borsellino e degli agenti vengono fatti a pezzi, una trentina di auto ridotte a carcasse. Vanno in frantumi tutte le vetrate della strada e tremano i palazzi intorno all’esplosione.